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Canzone d’autore, l’esistenza si racconta

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Le canzoni d’autore sono poesie in musica, versi musicati attraverso cui scorrono i sentimenti nobili che danno un senso profondo alla vita

Marco Testi – Un mondo di confine, apparentemente. Come se fosse possibile mettere un confine alla poesia, alla musica. Gli autori delle proprie canzoni, e i loro esecutori, dal 1959 diventano ufficialmente cantautori: il termine fu coniato in ambienti discografici per lanciare Gianni Meccia, che ebbe negli anni Sessanta un buon successo, e che è coautore, assieme al compianto Jimmy Fontana de “Il mondo”, uno dei più duraturi successi nazional-popolari.
Ma perché un mondo di confine? Per prima cosa perché alcune canzoni sono realmente poesie in musica, anche se questo non dovrebbe scandalizzarci: già in Grecia gli strumenti musicali accompagnavano la poesia conviviale e in Provenza molte poesie d’amore venivano messe in musica. Dante stesso ci ricorda nel secondo canto del Purgatorio come anche lui e Casella fossero in pratica dei cantautori, perché l’amico cantava i versi del fiorentino. Pochi sanno però che anche da noi, non solo nella Francia di Brassens, nell’America di Dylan o nell’Inghilterra dei Beatles, c’è stato un fecondo e dimenticato incontro tra poesia e musica popolare: Modugno, per dirne una, tra il 1960 e il 1962 mise in musica due poesie del grande Quasimodo, premio Nobel per la letteratura nel 1959, “Ora che sale il giorno” e “Le morte chitarre”.
Ma non solo poesia. E non solo anni Sessanta: lo stesso Modugno ha ispirato uno dei suoi immortali successi, “Vecchio frack”, e siamo nel 1955, al suicidio del principe romano Raimondo Lanza di Trabia.
luigi tenco_clarusSe si guardano le date, si capirà che il supposto ritardo della nostra canzone sulle pur grandi esperienze straniere non è poi così profondo. Anzi.
Una sorta di ambasciatore della poesia in terre distanti tra di loro, dicono alcuni del cantautore: se non che questa immagine farebbe torto alla specificità unica della categoria che non è musica+poesia=canzone d’autore. No. La canzone d’autore è altro. È un terreno in cui nasce qualcosa di diverso dalla poesia, seppure nobile, e dalla musica. È una dimensione a sé, con le sue regole e le sue leggi. Le parole, ad esempio, sono tutt’uno con le note, che non sono solo il tessuto sottostante, ma parte integrante della canzone. Se si toglie il tessuto musicale alla “Donna cannone” (dedicata a Mia Martini) di De Gregori, si esclude una possibilità evocativa fondamentale.
I cantautori, tra i tanti, hanno un merito fondamentale, quello di avvicinare i giovani alla letteratura “alta”, aiutandoli pian piano a capire la bellezza non solo delle parole di Dylan o Cohen, Paoli o Endrigo, Battiato o Venditti, Brel e Ferrè, ma entrare nelle liriche, che si ritenevano ingiustamente astratte e svincolate dalla nostra esperienza, di Dante e Petrarca, Shakespeare e Eliot, Dino Campana e Ungaretti.
In questo caso, nei riguardi di alcune fasce giovanili, e anche non tanto giovanili, perché, lo diceva il maestro Manzi e guarda caso sempre nei Sessanta, non è mai troppo tardi, Tenco, Fossati, De Gregori, Venditti, Dalla (di cui parleremo più avanti), Lolli, e tanti altri hanno avuto un ruolo chiave di apripista. Si diceva di Dalla. Il periodo di punta, in cui davvero poesia e musica erano tutt’uno, è stato quello della collaborazione con il poeta e scrittore Roberto Roversi, e lì è uscita fuori la ragione d’essere della canzone d’autore: la bellezza che diventa messaggio, aiuto, consolazione, ma anche denuncia.
Le volpi con le code incendiate
non parlano,
ma gridano pazze tra gli alberi per il dolore.
La capacità di dire il fuoco della vita quando sembra che niente possa aiutarti a metterlo fuori di te è stato il dono di alcuni trovatori del ventesimo secolo che hanno continuato a sognare la melodia che incanti per sempre la bella signora senza pietà, ma anche a cercare parole che riuscissero a dire l’esistenza, a svelarne l’essenza più riposta. In poche parole a dare un senso alla vita.

fonte Agensir

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