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La vedova e il giudice disonesto nel Vangelo di domenica 16 ottobre

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vangelo domenica 16 ottobre

A cura di Don Andrea De Vico
Anno C – XXVIX per Annum (Lc 18, 1-8)

“Ascoltate cosa dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo?”

La vedova, con la sua preghiera ostinata, induce un giudice iniquo a farle giustizia. Noi, insieme a Luca che la registra, interpretiamo la parabola alla luce della “necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai”. La conclusione che ne tiriamo è lapalissiana: come ha fatto la vedova, così dobbiamo fare anche noi, pregare con insistenza. Tanto più che in altri passi sia Luca che Paolo insistono nel dire che bisogna pregare “sempre” e “senza scoraggiarsi”: una preghiera assidua, continua, per ogni necessità. “Perseveranza nella preghiera” sarebbe questo fidarci di Dio anche quando sembra ignorarci o non ascoltarci. Molti cristiani, in seguito a esortazioni di questo tipo, hanno incamerato un falso concetto della preghiera, e noi ci mettiamo a pregare come se Dio avesse bisogno delle nostre parole. Alla fine, che seccatura questo Dio che vuol essere pregato!

In realtà, ci dispiace per Luca e per i predicatori che ci hanno sviato il discorso, qui Gesù sta dicendo un’altra cosa. La figura principale della parabola non è la povera vedova, ma il giudice, messo in antitesi con il Giudice Supremo, Dio, con il quale non abbiamo certo bisogno di essere petulanti come questa poveretta. A ben vedere infatti, non è in gioco tanto il problema della preghiera e della sua efficacia, quanto quello della giustizia di Dio, che sembra essere in ritardo o latitante nella storia. La povera vedova che chiede giustizia rappresenta la grande maggioranza degli esseri umani, deboli, indifesi, maltrattati, senza diritti … Gesù assicura che le grida di questa gran massa di poveracci che protestano per la loro condizione, per il loro desiderio di riscatto, sono delle autentiche preghiere che non potranno rimanere inascoltate.

Tutto si gioca sulla sete di giustizia di tanta buona gente che, facendo l’esperienza della povera vedova, ha la sensazione di essere abbandonata da tutti, anche da Dio. Il discorso di Gesù infatti reca due termini di paragone: se un uomo cattivo e di parte come quel giudice iniquo viene “costretto” a fare giustizia, se non altro per togliersela di torno, vogliamo che Dio non sappia fare di meglio per quelli che notte e giorno gridano a lui? State tranquilli che l’intervento del Giudice divino è cosa certa: “farà loro giustizia prontamente”, senza lungaggini processuali.

La conclusione giusta non è che dobbiamo metterci a pregare imitando la petulanza della vecchietta, ma il fatto che la preghiera abbia a che fare con la giustizia, cosa tremendamente seria, eppure le “deformazioni” della preghiera sono tante. La preghiera può essere espressione di ipocrisia, quando è solo formale, professionale (tutte queste messe!); poi c’è un il rischio della manipolazione, quando la preghiera viene fatta allo scopo di ottenere qualcosa (fammi star bene, fammi riuscire l’esame, fammi trovare il fidanzato); poi c’è l’incoerenza, quando il contenuto della preghiera contrasta con l’azione pratica (il coro che canta: “ho bisogno di incontrarti nel mio cuore”, e poi nessuno fa la comunione); la circostanza occasionale (quando ci si presenta solo in caso di matrimoni, funerali, feste e ricorrenze …) Preghiere del genere non arrivano molto in alto. In Paradiso gli addetti al servizio postale scartano le domande qualsiasi e inoltrano la domanda evangelica per eccellenza, la più importante: “fammi giustizia!” Solo la “sete di giustizia” arriva al cospetto del Signore come “posta prioritaria”. Il passo presenta una chiusura violenta, inaspettata: “ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” A questo punto, il vero problema non è l’intervento di Dio nella storia, che questo è certo, ma la nostra fede. Per la giustizia facciamo i cortei e le mozioni parlamentari, ma la fede dove l’abbiamo messa?

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