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Capi politici e religiosi, i buon pastori che dovrebbero essere. Commento al vangelo di domenica 7 maggio             

Torna l'appuntamento settimanale con la Parola di Dio. La riflessione si estende oltre i confini del sacro

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A cura di don Andrea De Vico
Anno A – IV Domenica di Pasqua (Gv 10, 1-10)

“Chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore”
L’immagine del pastore, per indicare la funzione del governo, è antichissima: nell’Antico Testamento i capi politici e religiosi erano detti “pastori” del popolo. Gesù volge a sé l’antica metafora in modo assoluto: è lui il buon pastore, è lui il recinto di protezione, è lui la porta d’ingresso. Colui che cerca di scavalcare i luoghi e vi entra di nascosto, cercando di passare inosservato, di notte, non è un pastore, ma un estraneo, un abusivo, un ladro, uno che lo fa per soldi. La Chiesa riceve da Gesù il compito pastorale, e investe i suoi ministri del mandato pastorale. Abbiamo un’impressionante considerazione di San Gregorio Magno, Papa dal 590 al 604:

“La messe è molta, ma gli operai sono pochi … non possiamo parlare di questa scarsità senza profonda tristezza, poiché vi sono persone che ascolterebbero la buona parola, ma mancano i predicatori. Ecco, il mondo è pieno di sacerdoti, e tuttavia si trova di rado chi lavora nella messe del Signore; ci siamo assunti l’ufficio sacerdotale, ma non compiamo le opere che l’ufficio comporta … Ci siamo ingolfati in affari terreni, altro è ciò che abbiamo assunto con l’ufficio sacerdotale, altro è ciò che mostriamo coi fatti. Noi abbandoniamo il ministero della predicazione e siamo chiamati vescovi, ma forse piuttosto a nostra condanna, dato che possediamo il titolo onorifico e non le qualità. Coloro che i sono stati affidati abbandonano Dio e noi stiamo zitti … trascuriamo il ministero che dovremmo compiere” (Lit. Ore, Sabato XXVII sett.)    

Il testo è di un’attualità sconcertante. Roba da mandare allo scasso un’intera gerarchia che si costruisce su basi e ambizioni umane. Nell’ottica del “sostentamento”, il pastore riceve ciò di cui avrà quotidianamente bisogno, ma se nella mente del pastore c’è la prospettiva di un “accumulo” di beni e di denaro, per assicurarsi la vita e godersi la pensione, allora i soldi non gli basteranno mai, anzi: andranno ad incrementare il gioco al lotto di quelli che gli faranno la festa dopo il funerale.

Il pastore “malvagio”, preso dagli affari terreni, dai commerci carnali e dai compromessi col mondo, si limiterà a una parvenza di pastorale, a volte nemmeno quella; si muoverà di nascosto, cercherà di passare inosservato, cancellerà le tracce del suo passaggio, solleverà una nebulosa di eventi per coprire i suoi comportamenti anomali, il suo stile perverso. Ad un certo punto infatti, a lui della gente non importa più niente: “ognuno faccia quello che vuole”. Quando arriva a dire questo, il pastore è finito. Colpa degli altri? O è lui stesso che sta cercando di legittimare le esigenze della sua doppia vita, per cui chiede solo di essere lasciato in pace?

Tuttavia questo non scagiona il popolo del tutto. Non è che i cattivi governanti spuntino dal nulla all’improvviso come funghi incommestibili: essi vengono su per scremazione, come il burro che sale dal latte, e ci rappresentano persino nell’umana malizia. Ovunque ci sia un pastore mercenario o la corruzione di un politico, questa parte dal basso, dalla deferenza del livello inferiore che ossequia il potere, magari divinizzandolo, in vista di favori e privilegi particolari. Ci sono dei momenti, nella storia di una comunità, in cui il Signore è talmente stanco di questo popolo che gli appioppa il pastore che si merita, come per dire: vedete come siete fatti! Per fortuna neanche sono tanto rari quei buoni pastori che vengono a ricordarci come è fatto Dio! Certo, la comunità non è mai quella ideale, il gregge è costituito in gran parte da pecorelle deboli, difettose, inferme, ferite, sviate, perdute … ma il pastore che agisce secondo il cuore di Dio non si ferma solo per questo, non opera nell’anonimato, non latita, ma fa come Gesù, si mette a cercare i malati, mica i sani!

Al buon pastore non sono richieste umane abilità, ma santità di vita. Egli non deve fare il poeta, il musicista, lo psicologo, il dirigente, l’imprenditore, il ragioniere, il burocrate, l’organizzatore, l’animatore o il mediatore socio-culturale: queste cose competono ai laici affidati alla sua cura. Il pastore deve semplicemente “essere accanto”, chiamare ciascuno per nome, con sana attenzione, con atteggiamento di vigilanza, il bastone in mano per difendere la fede dalle aggressioni esterne, e il vincastro per incoraggiare le pecorelle inappetenti. Il rapporto pastorale, infatti, è un rapporto di reciprocità, come dice San Giovanni Paolo II: “egli cercherà di essere vicino a loro, in modo da sapere come vivono, che cosa rallegra e che cosa turba i loro cuori … [sua] preoccupazione è quella di tutelare il carattere personale del rapporto. Ogni persona è un capitolo a sé” (1)

Osserviamo l’attività degli Apostoli. Il loro esercizio pastorale si basa su pochi punti essenziali: l’appello alla conversione, il battesimo, la remissione dei peccati, l’effusione dello Spirito Santo. Tutto questo genera e forma la comunità cristiana. E se c’è la comunità, potremo anche permetterci il lusso di organizzare la pastorale nelle sue diverse branche e fare il Sinodo, ad esempio. Del resto cos’è un Sinodo, se non una responsabilità pastorale condivisa, dato che ognuno di noi in qualche misura ha un incarico di autorità verso gli altri: la famiglia, la scuola, l’associazione, il gruppo …? Che cosa facciamo, cerchiamo i nostri interessi, o l’interesse delle persone che ci sono state affidate? Sappiamo fare dei sacrifici per loro, o pretendiamo che siano essi a doversi sacrificare per noi?

(1)  Cf. Giovanni Paolo II, “Alzatevi, andiamo!”, Libreria Editrice Vaticana – Mondadori 2004, pagg. 55-56 

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