Home Attualità La parola al Capitano Ultimo a 25 anni dalla strage di Capaci

La parola al Capitano Ultimo a 25 anni dalla strage di Capaci

Alla mano sinistra un mezzo guanto, come quello degli ultimi, i più poveri. L'uomo di Dio che arrestò Totò Riina e che lavora per la fratellanza e l'uguaglianza

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“Andate avanti. Non restate nascosti”, l’appello che il Capitano Ultimo ha lanciato ai giovani di Sant’Angelo Alife dopo l’incontro di sabato scorso  a Roma, presso la sede dell’Associazione Volontari Capitano Ultimo.

Lui, il Capitano dal volto nascosto (che non abbiamo fotografato per motivi di sicurezza) ha chiesto al gruppo di ragazzi di venire allo scoperto, di non arrendersi di fronte al male, di affrontare la vita puntando soltanto sulla forza del Vangelo e della comunità: “Siamo una forza, non ci ferma nessuno” ha più volte pronunciato con voce e sguardo fermi, quelli di un uomo determinato, oggi più di ieri, a combattere il male.
Quel cappuccio che ormai da anni nasconde la sua identità fisica, non ha mai coperto o camuffato la sua dignità e il suo coraggio di uomo, servitore dello Stato ma soprattutto dei fratelli più poveri, degli ultimi.
Abbiamo avuto la gioia di condividere con il gruppo di Sant’Angelo – i ragazzi del Catecumenato crismale della parrocchia di Santa Maria della Valle accompagnati dal parroco don Mario Rega e dagli educatori Angelo Rossolino e Michela Visone – questo incontro “esclusivo”, per certi aspetti riservato: la vita di Ultimo, oggi colonnello in servizio al Noe (Nucleo Operativo Ecologico), è sottoposta a forme di tutela e di protezione molto severe, tuttavia si è mostrato a viso scoperto, senza alcun filtro tra lui e noi, guardando in viso uno ad uno i presenti, ha raccontato della sua vita di “servizio” in particolare dell’esperienza di uomo di Dio, uomo della carità da quando – nel 2008 – ha fondato la Casa famiglia in cui siamo stati ricevuti.

Capitano Ultimo. La storia.
Sergio De Caprio, 57 anni, era un giovane capitano dei Carabinieri, quando in servizio a Palermo a capo dell’unità Crimor da lui fondata, nel 1993 arresta Toto Riina, il capo di Cosa nostra. Fu lui ad ammanettare il boss e a prendersi il merito di una importante ed esclusiva impresa eroica compiuta dallo Stato in quegli anni di stragi. Consensi durati pochi giorni, visto che i militari entrando nella casa di Riina alcuni giorni dopo l’arresto non vi trovarono più l’archivio segreto del capo mafioso. Il ritardo della perquisizione fu motivo di condanna nei suoi confronti e persino di un processo con l’accusa pesante di aver intessuto rapporti con la mafia al fine di guadagnare terreno sulle indagini e sull’individuazione del boss.
Negli anni precedenti, la sua amicizia e collaborazione con i magistrati Falcone e Borsellino, tutti accomunati da un unico destino: uomini con il rispetto delle Istituzioni, abbandonati dalle Istituzioni, messi da parte perché scomodi.
De Caprio, nei trasferimenti di ruolo che l’Arma gli ha imposto, si è anche trovato di fronte all’amara sorpresa di vedersi togliere la scorta, poi riassegnatagli. Continua a vivere nell’anonimato, ma continua anche il suo lavoro di indagine in servizio al Noe, non da solo, sempre con gli amici della scorta.

Il racconto di Ultimo
Ad accoglierci presso la struttura che ospita la sua Associazione, Padre Rovo (in foto con i ragazzi), 37 anni, oggi totalmente dedito alla cura dei minori ospitati nella casa famiglia fondata da Ultimo in un’area periferica della Capitale, ai confini con Tor Bella Monaca: quartiere di spaccio e prostituzione, riserva per gli ultimi, dove il coraggioso Capitano ha voluto piantare la sua tenda “perché la missione del Carabiniere, ha spiegato con orgoglio, è quella di stare tra la gente, proprio come la Chiesa”.
Su un terreno coperto da baracche ed erbacce concessogli dal Comune di Roma, nel 2008, grazie ai colleghi dei tempi più remoti, dà vita al progetto di recupero sociale riservato alle persone sole, alle persone in difficoltà. Accanto alla casa famiglia in breve tempo nascono una serie di laboratori artigianali (lavorazione legno e ferro, panificio, pasticceria, pizzeria…) in cui lavorano ex detenuti, ragazzi collocati nei carcere minorili, persone con disturbi psichici.

Ai ragazzi di Sant’Angelo si sono uniti gli amici del Paraguay impegnati nella missione mariana di Schonstadt. Don Mario Rega dona loro un crocifisso in terracotta

Ci ha salutati stringendo la mano uno ad uno: “Grazie per essere qui con noi oggi, grazie per aver scelto di condividere la nostra esperienza”: una vita di carità e prossimità, così ci descrive l’esperienza presso il Centro dove per tutti c’è posto, per tutti c’è una carità. Quello che settimanalmente si guadagna attraverso le attività artigianali, alla domenica dopo le messa viene distribuito tra coloro che hanno lavorato e una parte donata anche a chi non lo ha fatto, perché nessuno sia escluso da una possibilità di vita dignitosa, perché tutti si sentano parte della famiglia.

“Uguaglianza e fratellanza. Questa la nostra missione. Cerchiamo di pregare come ci chiede Gesù. A volte ci riusciamo, a volte non ci riusciamo”. Sintesi del suo percorso di vita, appassionato e senza freni.
“L’importante è trovare la rivoluzione, trovare la fede nella sopravvivenza… cercando di non cadere nei riti che uccidono la forza e la primavera. Condividere la mensa con chi è nel bisogno, come i nostri fratelli rom che non riescono a mangiare o a lavarsi tutti i giorni: lì incontrare Gesù… Situazioni che ti fanno conoscere il pregiudizio verso i rom, ma ringraziamo Dio di avercelo fatto vedere per aprirci ancora di più gli occhi, perché – una volta incontrato il pregiudizio – impariamo a superarlo e puntare sui nostri giovani perché abbiano la forza di ricreare una comunità cristiana che va avanti per la legge di Dio e non per la legge degli uomini e che ha in sé la forza di sopperire alle carenze della legge degli uomini e delle forme organizzative degli uomini: è la comunità cristiana che aiuta tutti gli assetti amministrativi e politici”.

Parole forti da un uomo dello Stato, capace, oggi come allora, di mettere in discussione la fragilità delle strutture “senza fede”.
“Non ci dovrebbe essere paragone tra la comunità cristiana e gli apparati organizzativi di qualunque Stato o organizzazioni, perché la prima è fondata sull’amore: i cristiani sono stati perseguitati perché non avevano bisogno dello stato dell’Imperatore, erano amici fra di loro e chi aveva bisogno veniva aiutato dagli altri”.
Parole che sferzano il perbenismo di una società che talvolta si nasconde dietro etichette meno asfissianti dei cappucci di Ultimo ma non parla con la stessa forza, né con la stessa convinzione.

L’esperienza di Gesù Cristo, del Colonnello Sergio De Caprio, è da sempre, è da bambino, dall’educazione religiosa ricevuta in famiglia, ma anche da un istinto profondo “Andavo a messa e nutrivo un gran senso di affetto e protezione per quelle persone che trovavo lì in preghiera. ‘Cosa posso fare per loro?’, mi chiedevo. Sentivo di doverle proteggere, custodire, avere cura di esse”.

Un episodio di questa infanzia al quale è particolarmente legato?
“Mia nonna, pur avendo tanti figli aveva adottato una ragazza povera del paese; tante cose le ho imparate da lei e da mia mamma. Vedevo la gioia di quando si cucinava e la domenica dividevamo l’arrosto tutti insieme…
E poi la gioia di vivere in un piccolo paese, tra poche centinaia di persone, dove tutti avevamo cura di tutti, in particolare degli ultimi.
Questa è la legalità, è la giustizia… Questa è la comunità: solo mettendo insieme le nostre famiglie, oggi purtroppo divenute punto di arrivo e non punto di partenza, è possibile cambiare il mondo”.

E oggi? Il suo tempo, i suoi impegni?
“Vivo evitando incontri pubblici e celebrazioni, proprio come quando avevo 15 anni e mi nascondevo dalla folla, in perfetta sintonia con quello che faccio adesso.
Vivo combattendo l’arroganza delle persone e a volte la mia.
Lavoro, ma soprattutto prego perché credo nella vita bella che ci ha proposto Gesù Cristo con il suo Vangelo, credo in Lui finito su una croce per amore, credo nella resurrezione dei morti”.

Le indagini che l’hanno coinvolta dopo l’arresto di Totò Riina hanno insinuato il dubbio e il sospetto su un uomo come lei che ha scelto una straordinaria forma di servizio all’uomo e allo Stato. giustizia che si contraddice? Giustizia che rende fragile il suo stesso sistema?
“Dobbiamo distinguere la giustizia degli uomini, la legge arrogante degli uomini…
La lotta antimafia appartiene al popolo, è del popolo e deve rimanere al popolo.
Quando se ne appropriano i professionisti essa diventa una lotta di gruppo, di élite, di apparati che questa lotta – anche giusta – la utilizzano, per fini e interessi diversi da quelli che sono l’uguaglianza e la fratellanza.
Tutto questo non deve preoccuparci o scalfirci perché dobbiamo essere giudicati, dobbiamo essere criticati e partire dal fatto che Gesù è stato messo sulla croce e condannato perché amava i suoi fratelli”.

Libero da questi condizionamenti?
“Questa cosa non ci deve turbare, ma rendere consapevoli che la lotta alle mafie si fa contrapponendo alla violenza e all’odio l’uguaglianza e la fratellanza; poi entrano in gioco tecnica e audacia… per chi ce l’ha, ma sempre in nome e per conto del popolo”.  

La carriera militare di Ultimo, fortemente segnata dal processo che l’ha coinvolto ha subito fasi alterne e battute d’arresto. Lui e i suoi uomini, in nome di una libertà cara, hanno scelto strade diverse, poco celebrative per se stessi e gli importanti risultati di quegli anni.
“Noi non abbiamo da insegnare niente a nessuno, non abbiamo da dire niente a nessuno: abbiamo combattuto con umiltà.
Un gruppo di carabinieri giovani che credevano nell’uguaglianza e nella fratellanza e lo hanno fatto senza volere nulla in cambio, e hanno donato la loro vita al popolo. Non vogliamo essere celebrati, non vogliamo essere premiati… siamo orgogliosi e felici di aver donato la nostra giovinezza al popolo. Tutto il resto non ci interessa, è degli altri, glielo regaliamo, è tutto loro.
Siamo state dei privilegiati perché abbiamo potuto combattere per il nostro popolo, e ringraziamo tutti quelli che ce l’hanno concesso cioè l’arma dei Carabinieri”.

Papa Francesco?
“Combatte l’arroganza del mondo. Lo supportiamo con le nostre azioni e lo porto con me, nel mio cuore”.

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