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Prendere la Croce. Molto più che un reality show. Commento al vangelo di domenica 2 luglio

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A cura di don Andrea De Vico
Anno A – XIII  per Annum (Mt 10, 37-42)

“Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me …”

… e anche nella lettera agli Ebrei è detto che “Gesù, in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce” (Eb 12, 2).
Che significa, che dobbiamo dedicarci alla penitenza, negandoci ogni tipo di soddisfazione e piacere?
Nella storia della spiritualità ogni tanto salta fuori la convinzione che per “salvarsi l’anima” bisogna sottoporre il corpo ad ogni specie di privazione e mortificazione. Ecco la santità individualistica, triste, doloristica, ascetica, emaciata, anoressica: “il dolore a spese del piacere”. Una volta, a carnevale, facevamo le quarantore: mentre tutti gli altri, nel mondo, si divertivano, si ammogliavano e facevano una moltitudine di peccati, noi stavamo in Chiesa a riparare tutto quello sconcio e quello scempio che tanto rattristava il cuore di Gesù.
I balli e le feste? Come Sodoma e Gomorra, come ai tempi del diluvio: mangiavano, bevevano e si ammogliavano, poi venne il diluvio e li fece perire tutti. Questo mondo ingrato non lo sapeva, ma avrebbe dovuto ringraziarci: con la nostra preghiera noi avevamo prorogato i termini dell’ira divina!

Scherzi a parte, i dolori sono facili da sopportare e interessanti da raccontare, altrimenti non esisterebbe la narrativa, il teatro, la mistica, il cinema e il reality-show.
Che mondo sarebbe se non ci fossero tutte queste tristezze da condividere?
Al contrario, ciò che alla fine risulta insopportabile è proprio quel carico dei piaceri che il mercato ci obbliga a soddisfare.
Siccome si nasce tutti col dolore di esistere, il mercato promette un accesso facile alla felicità, suscitando la brama di un oggetto perfettamente inutile, superfluo, spingendo la gente a farne acquisto.
Come bambini viziati da una “madre-tutta-seno”, sfacciati, spudorati e senza un senso del limite a motivo di un “padre-assente-che-dovrebbe-rappresentare-l’autorità”, ci sentiamo obbligati ad essere tutto, avere tutto, sperimentare tutto, sapere tutto, avere un’opinione su tutto, comprare tutto … In una parola: “il piacere a scanso del dolore”, il piacere idiota, la tentazione edonistica che schiaccia le persone nel consumo compulsivo, bulimico e perennemente insoddisfatto.
Per un attimo la cosa riesce, sembriamo contenti, ma poi l’esperienza del dolore si ripresenta puntualmente e bussa, come compagna inseparabile, con più insistenza di prima. Il poeta Lucrezio lo ammette: “Un non so che di amaro sorge dall’intimo stesso di ogni piacere, e ci angoscia anche in mezzo alle delizie” (1).

Gesù ha indicato un nuovo tipo di gioia, quella che segue il dolore come suo frutto, mettendo la gioia non prima, ma dopo il dolore contenuto nelle cose. C’è una bella differenza tra il piacere che scansa il sacrificio e il piacere che lo segue. Una cosa è lavorare per godersi una vacanza, un’altra cosa è farsi finanziare la vacanza col pensiero di andare a lavorare in autunno per estinguere il mutuo! La croce è fatta così: non dobbiamo andarcela a cercare, perché la vita già ce la offre da sé. Dobbiamo accoglierla come la vela accoglie il vento: presa per il verso giusto, la croce ci porta; presa di traverso, la croce ci schiaccia, la vela si strappa e la barca si rovescia. Con Gesù, la croce è leggera, senza di lui, pesante. Non dobbiamo dunque temere la croce, ma neanche dobbiamo avere paura del piacere. Ci sono persone che, per una educazione rigida, o per non perdere il controllo di sé, o per non apparire ridicoli davanti a una platea immaginaria, hanno paura del piacere e non se lo permettono. Perché? Ecco: il piacere è un’incognita della vita che ogni volta rimette tutto in gioco, per cui tante volte le persone non hanno coraggio di coglierne il frutto genuino. Il Talmud dice che: “Ognuno deve rendere conto a Dio di tutte le cose buone viste nella vita e non godute”; “E’ peccatore anche chi si priva di ogni benedizione” (quindi di ogni gioia) (2).

(1) Lucrezio, De rerum natura, IV, 1129 s.

(2) cf. Gianfranco Ravasi, “Qoelet”, EP Milano, 1988, p. 289, che cita: “The Talmud with english translation and commentary”, Gerusalemme-Tel Aviv 1967

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