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La mano sulla lebbra, con fremito e compassione. Commento al Vangelo di domenica 11 febbraio

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A cura di don Andrea De Vico
Anno B – VI per Annum  (Mc 1, 40-45)

“Venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava e gli diceva: ‘Se vuoi, puoi purificarmi’. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: ‘Lo voglio, sii purificato’ ”

La lebbra è una malattia terribile che consuma e deforma il corpo. Era considerata la massima sventura. Chi ne era colpito, veniva allontanato dal consorzio umano, come un maledetto. Si temeva che il solo contatto col lebbroso diffondesse il morbo. Nel libro del Levitico è detto che la persona sospettata di lebbra doveva essere portata dal sacerdote il quale, accertata la cosa, lo avrebbe dichiarato immondo; a partire da quel momento, l’uomo doveva portare vesti strappate e capo scoperto, e segnalarsi a distanza gridando: “immondo, immondo!”. Quei poveri disgraziati erano costretti a vivere in appositi recinti, nei cimiteri, nei boschi, nelle grotte, ai margini dell’abitato. Erroneamente si riteneva che la lebbra, come ogni altri tipo di malattia, fosse una punizione divina per qualche peccato. Malati, esclusi e maledetti: non si poteva immaginare una situazione peggiore. A quel tempo, l’unica preoccupazione della società era quella di proteggere sé stessa.

Gesù non ha paura di contrarre il contagio, anzi, “mosso a compassione”, stende la mano e lo tocca. Oggi la parola “compassione” non piace, è fuori moda, politicamente scorretta, irritante, come se esprimesse sentimenti di superiorità e condiscendenza. Ma “com-patire” vuol dire semplicemente “soffrire insieme”, essere vicini, mettersi allo stesso livello. Se non piace la parola, si potrebbe dire: “mosso a solidarietà”, ma qui stiamo nella logica degli spazzini che diventano “operatori ecologici”, dei pescivendoli trasformati in “impiegati del settore ittico”, dei bidelli assunti come “personale parascolastico”, e degli inceneritori che il politichese cambia in “termo valorizzatori”. E i sagrestani che cosa dovrebbero essere, dei “para-preti?”

La parola greca che soggiace a “compassione” indica il “fremito” delle viscere: Gesù sente come un tuffo, un intimo sconvolgimento, stende la mano” e tocca il lebbroso, in segno di vicinanza, affetto, conforto, aiuto, protezione. La compassione è questa. Giovanni Paolo II ha scritto che “l’uomo può ritrovarsi solo attraverso il dono sincero di sé” (Salvifici Doloris, 28). Proprio come Gesù che stende la mano: un semplice gesto per esprimere il dono dell’intera persona. Ma gli uomini usano farsi anche doni apparenti e falsi, come il cavallo che i Greci lasciarono ai Troiani, fingendo di abbandonare il campo. C’è una parte di mondo laico che avanza un improbabile concetto altrettanto laico di pietà. Invece di stendere la mano, vogliono di bypassare la sofferenza, aiutando la gente a morire “per libera scelta”. Si fanno battaglie e si avanzano proposte che sono dei veri e propri “cavalli di Troia” per introdurre l’aberrazione dell’eutanasia.

In realtà, l’amaro regalo nascosto nella dolce pillola della morte suona più o meno così: i deboli e i malriusciti devono perire: questo è il principio del nostro amore per gli uomini. E a tale scopo si deve essere anche essere loro di aiuto” (Nietzsche, L’Anticristo, 2). Capito? Mettere fuori gioco i deboli e i malriusciti, e questo sarebbe un atto di pietà! Basta il tocco di un pulsante, basta staccare una spina! Così, di fronte alla morte, ognuno sia lasciato libero di scegliere come meglio crede, secondo un principio di libertà. Siccome Dio non c’è, le sofferenze sono inutili e i dolori insopportabili, lasciamo che il malato faccia da sé, magari lo invitiamo noi a farla finita al più presto, senza dimenticare una conveniente sistemazione delle questioni ereditarie. Si tratta di un mondo che non accetta i principi “astratti e assoluti” della metafisica e della religione, ma poi finisce lui stesso per affogare in un “principio di libertà” che non esiste né in cielo, né in terra né in ogni altro luogo.

C’è chi pensa che basta definirsi “laico” per essere nel giusto, come chi ritiene di avere ragione solo per il fatto di essere “cattolico”, raro rappresentante di una nobile tradizione di pensiero: stesso fondamentalismo, stessa irrazionalità. Ma questo non è un “principio” di libertà, è solo un suo squallido “feticcio”. Un autore poco in vista, che nessuno inviterebbe a Sanremo per il suo politichese scorretto, con le crude parole del disinganno esprime in una canzone la perversione del rapporto generazionale, il bel “regalo” che i figli stanno preparando ai padri:

“Se fossi nato in Africa, senza la civiltà, intorno avrei dei giovani che onorano l’età / E intanto Dio aspetta con i capelli bianchi / Quando tutti gli uomini saranno vecchi e stanchi / E avranno quel regalo che si son preparato / L’eutanasia di gruppo i figli hanno imparato” (1)

In tempi lontani allontanavano i lebbrosi per proteggere la società. Oggi, per motivi analoghi, ritorna l’antica preoccupazione pagana di tenere i malati alla larga, relegati in ambienti asettici, in luoghi privi di bolle di calore umano, come se fossero morti prima del tempo, con la scusa che all’ospedale sono seguiti meglio. Ma quando c’è una mano tesa su di lui, è meno probabile che un malato chieda di morire. “Io non so come accade che, quando un membro soffre, il suo dolore diventa più leggero se le altre membra soffrono con lui” (Sant’Agostino, Epistola 99, 2)

(1)  Marcello Marocchi, “Eutanasia”, in LP Fermatevi, Edizioni Paoline, Roma 19…

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