Home I Sentieri della Parola La morte del chicco. Commento al Vangelo di domenica 18 marzo

La morte del chicco. Commento al Vangelo di domenica 18 marzo

Solo morendo il chicco può trasformarsi in vita: questa la "missione" di Gesù, "è lui il chicco che deve morire e portare frutto"

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A cura di don Andrea De Vico
Anno B – V di Quaresima (Gv 12, 20-33)

“Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”.

La maturazione dei frutti è un processo biologico in cui possiamo scorgere un prodigio divino. La differenza tra lo stato iniziale del seme e quello finale dei frutti è un emblema della vita umana: se muore, porta frutto. Gesù sta parlando della sua missione: è lui il chicco che deve morire e portare frutto. Questo lo aveva già detto in altri modi: c’è un calice che deve bere, c’è un battesimo che deve ricevere (Mc 10, 38); egli è come un pastore che dà la vita per le pecore (Mc 14, 27); è quella pietra che sta per essere scartata, ma è destinata a diventare pietra angolare (Mc 8, 31). Così, chi ama la sua vita la perde, ma chi la perde per amore, la guadagna per sempre. C’è una cosa che mi stava molto a cuore, ci ho lavorato per molto tempo, era diventato lo scopo della mia vita, poi questa cosa è andata male, lasciandomi la sensazione di aver fallito tutto. Che fare? Continuare a girarci intorno per il resto dei miei giorni, vivendo di rimpianti ed amarezze, oppure guardo “oltre?” Proprio come il chicco: se me lo tengo stretto tra le mani, rimane da solo, ma se con un atto di generosità lo affido alla terra, dopo il buio della zolla e il marcio della morte, il frutto!
Ci sono persone nubili, per forza, per scelta o per necessità. Col tempo possono subentrare dei sentimenti di rabbia e rassegnazione, per cui queste persone cominciano a vivere un “al di qua” fatto di espedienti e surrogati. Vedono tutto nero, le loro parole sono amare, i colori preferiti sono quelli del lutto, diventano aride, acide, cattive, dai giudizi impietosi verso chiunque capiti loro a tiro. Il chicco si isterilisce nella chiusura egoistica, si rifiuta di cadere e morire. Se invece queste persone si aprono ai valori e praticano un certo grado di socialità, può darsi che incontrino un compagno di vita, può darsi che non lo incontrino, ma almeno stanno vivendo una vita vera!
Ci sono coppie felici, ma che non hanno un figlio, e lo desiderano più di ogni altra cosa al mondo. Dopo anni di frustrante attesa, subentra l’ossessione per ciò che ormai è diventato l’unico scopo della loro vita: avere un figlio. Perché io che riesco in tutto, non riesco proprio in questo? Perché agli altri che sono peggio di me viene concesso, mentre a me che ho tanto affetto da dare, no? Le persone che sviluppano pensieri di questo tipo finiscono per pensare a una crudele ingiustizia divina, e vanno in crisi quando vedono altre donne felici con un bambino in braccio. Ancora una volta, il chicco si rinchiude in sé stesso, si rifiuta di cadere e morire.
La stessa cosa succede alle coppie felici con figli a seguito, nella classica casetta in Canada. Ad un certo punto c’è qualcosa che s’inceppa, i figli cominciano a coltivare altri interessi, prendono direzioni inaspettate, le cose non sono più quelle di prima, i genitori vanno in crisi. Che fare, spendere tutte le energie per tenere aperto un vecchio copione familiare, o accettare la nuova situazione in vista di un obiettivo forse più modesto, ma più vero?
Quanto al matrimonio, ci sono quelli che fanno dell’ironia, delle battutacce più o meno amare, più o meno intelligenti. Socrate, interrogato se bisognasse sposarsi o no, diceva: “in entrambi i casi, ti pentirai”. Per Abelardo vi è forse una catena più molesta del vincolo coniugale? essere crocifissi dalle cure quotidiane di una consorte e dei suoi marmocchi?” Kant aggirava l’argomento con un sofisma: “quando avevo bisogno di una donna, non potevo mantenerne una, e ora che sono in grado di mantenerne una, non ne ho più bisogno”. Il celibe Kant pensava in termini di rigorismo morale, e il celibe Spinoza in termini di eternità, segno che non si trovavano a proprio agio tra i loro simili, o non avevano adeguatamente frequentato le realtà coniugali.

Mi viene a mente un mio compagno di studi che sognava di fare l’eremita sul Monte Soratte, e voleva coinvolgere anche me nel suo progetto. Siccome aveva capito che tutte le donne del mondo non avrebbero soddisfatto le sue esigenze mistiche, aveva deciso di escluderle tutte, di qui la sua propensione al celibato. Per fortuna io già conoscevo i monti d’Abruzzo: il Soratte è solo un interessantissimo scoglio che si erge nella pianura a nord di Roma, nella valle del Tevere. La Chiesa post-tridentina, con l’“obbligo” del celibato dei preti, già arruolati in tenera età, ha prodotto infinite varianti dello stesso disagio, come possiamo facilmente constatare nella vita grama di certi ministri di Dio. Un candidato formattato da ragazzino per aderire all’incombenza di una volontà divina, difficilmente riuscirà a gestire i sensi di colpa ingenerati dalle infrazioni fisiologiche della regola. Siccome tutte le vie d’uscita sono sbarrate, la persona cerca la sicurezza dei comportamenti codificati, o si crea un suo statuto etico, per legittimare la sua avversione alle norme ufficiali. Col passare del tempo, però, da anima innocente qual era, questa persona diventa un ceppo secco nel migliore dei casi, o un ricettacolo di putride sconcezze nel peggiore. Questo può accadere nel più alto dei prelati come all’infimo dei sagrestani. Se invece la persona stessa, nel momento in cui intercetta un suo disagio, si impegna a tenere vivo il senso delle sue scelte e delle sue responsabilità, gli obblighi derivati le conferiscono una migliore impronta di ordine e di bellezza, di eleganza e gentilezza, nelle cose che fa. Il celibato deve essere come il matrimonio: a monte ci deve stare una “scelta”, non un “obbligo”. Il tesoro del celibato deve essere proposto e tenuto caro soprattutto come “scelta”, non tanto come “obbligo”.
A quanto pare, nella compagine laica e clericale, sia regolare che secolare, tutti possiamo trovare dei buoni motivi per lamentarci delle cose che potevamo avere e non abbiamo avuto, ma se giungiamo a conclusioni di questo tipo è segno che stiamo lavorando male, o non abbiamo guadagnato molto, per il Regno dei Cieli. Per fortuna Gesù ci offre un’alternativa che somiglia tanto a una spiga gonfia di promesse: la vita divina, una vita risorta, come la sua, la cui caratteristica consiste nella pienezza e nell’abbondanza, a tutti i livelli, per sempre, a partire da questo momento!

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