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Antropos. Quei selfie estremi, preludio alla morte. LETTERA AI GENITORI

La morte attrae sempre più giovani oggi. I genitori e la scuola hanno il dovere di mettersi in ascolto dei ragazzi, senza mai dimenticare che sono ancora immaturi

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Cari genitori, chi sono quei figli che, senza nulla dire, se ne vanno per sempre con la stessa semplicità con cui si esce di casa? Due giorni fa alle porte di Milano, con la scusa di un selfie provocatoriamente scattato su di un edificio a 25 metri di altezza, un altro giovane è precipitato nel vuoto. Incidente? Suicidio? Forse omicidio? Ma che differenza fa? È la morte che attrae i giovanissimi, è la moda del momento, sfidare la morte perché la vita è già che andata. In Italia, tra i giovani sotto i venticinque anni, il suicidio è la seconda causa di morte dopo gli incidenti automobilistici, che solo per un differente livello di coscienza possiamo tenere distinti dai suicidi veri e propri che sono comunque quattromila all’anno, di cui il sessanta per cento nell’età compresa tra i quindici e i venticinque anni. Mi rivolgo a voi, cari genitori, dopo essermi rivolto agli insegnanti, molti dei quali impegnati a far domanda di prepensionamento perché più non reggono le loro classi, e siccome voi in pensione dalla vostra funzione genitoriale non potete andarci mai, con voi c’è forse più tempo e più disponibilità per provare a capire quel deserto affettivo che sembra sia diventato il paesaggio abituale di molti dei nostri figli.

Non si può parlare neppure di disperazione, perché la loro anima non è più solcata dai residui della speranza: i giovani guardano avanti e non vedono il futuro e se non c’è futuro non può albeggiare la speranza. E le parole che alla speranza alludono, le parole di tutti, più o meno sincere, le parole che non si rassegnano, le parole che insistono, le parole che promettono, le parole che vogliono lenire la loro segreta sofferenza languono tutte attorno a loro come rumore insensato. Bisogna avere il coraggio di vivere fino in fondo anche l’insignificanza dell’esistenza per essere all’altezza di un dialogo con loro. E solo muovendosi intorno a questa loro verità, che è poi la verità che tutti gli uomini si affannano a non voler sentire, può aprirsi una comunicazione. E allora il loro silenzio va ascoltato perché dice la verità che, con la nostra vita euforica, ogni giorno noi seppelliamo per la gioia della nostra epidermide, perché il loro sguardo di pietra è un atto d’accusa al silenzio che abbiamo imposto al nostro cuore. Il colloquio è fatto solo di parole, ma le parole non si dicono solo, si ascoltano anche. Ascoltare non è “prestare l’orecchio”, è farsi condurre dalla loro parola là dove la parola conduce. Se poi, invece della parola, c’è il loro silenzio, allora ci si fa guidare da quel silenzio. Nel luogo indicato da quel silenzio è dato reperire, per chi ha uno sguardo forte ed osa guardare in faccia il dolore, la verità avvertita dal loro cuore e sepolta dalle nostre parole. Questa verità, che si annuncia nel loro volto di pietra, tace per non confondersi con tutte le altre parole. Parole perdute per l’evento che ogni giorno tentiamo di disabitare dietro le maschere in cui sono dipinte ovvietà, incrostazioni di felicità, o recitate euforie. Finché si parla della malinconia giovanile con le parole ed i toni dell’atto consolatorio non si capisce la sua verità, che fa retrocedere tutte le parole nell’inarticolato che inabissa nel silenzio. Perforando il silenzio è possibile raggiungere quel grido taciuto che è tale perché non c’è parola che possa esprimerlo.

E allora un invito ai genitori, soprattutto a quelli che si rivolgono ai figli solo per sapere come sono andati a scuola, e ai professori per ricordar loro che, quando sono a scuola, non hanno di fronte una “classe”, ma tante facce diverse da guardare per davvero, una a una, senza nascondersi dietro la scusa che non si è psicologi, perché non si è neppure uomini se non ci si accorge della sofferenza di un giovane. A giovani siffatti, probabilmente disattenti a scuola, non perché la materia non è interessante, ma perché nulla è più interessante, che dice la scuola? E soprattutto quando avverte quei passaggi d’atmosfera in adolescenti che troppo presto, saltando tutte le stagioni, passano dalla primavera a cui la vita li aveva immessi in quell’inverno dell’anima dove anche il rigore del gelo si fa sempre meno avvertito, che dice la scuola? E che dicono quelli che sono intorno a questo freddo, che dopo diventa un gelido addio, quando neppure sanno e neppure avvertono che una distanza, un tempo colmabile, è stata trascurata al punto da divenire abissale ed impercorribile? In quel momento, nell’innocenza di tutti, impercettibilmente, un adolescente, ogni giorno, senza neppure lasciare tracce, dice “addio”. So che la prevenzione al suicidio degli adolescenti non rientra nei programmi ministeriali della nostra scuola, ma non sono pochi i giovani che si tolgono la vita o tentano di farlo. Ci provano di più le ragazze, riescono a farlo con più determinazione i ragazzi. Quando non se ne vanno muti, per la sfiducia nell’ascolto da parte degli adulti, una sfiducia che hanno sperimentato nella loro breve esistenza, abbandonano nei loro cassetti messaggi disarmanti che largamente lasciavano presagire: a che serve tutto questo?

Non chiedo agli insegnanti di farsi carico dell’esistenza dei giovani. Non tutti possono. Molti di loro avrebbero dovuto avere un’altra formazione ed essere stati educati ad altra sensibilità. Chiedo loro solo di riflettere su questa considerazione di Sigmund Freud: “La scuola deve fare qualcosa di più che evitare di spingere i giovani al suicidio. Essa deve creare in loro il piacere di vivere ed offrire appoggio e sostegno in un periodo della loro esistenza in cui sono necessitati dalle condizioni del proprio sviluppo ad allentare i legami con la casa paterna e la famiglia”. Mi sembra incontestabile che la scuola non faccia ciò e che per molti aspetti rimanga al di sotto del proprio compito, che è quello di offrire un sostituto della famiglia e di suscitare l’interesse per la vita che si svolge fuori, nel mondo. Non è questa l’occasione di fare una critica della scuola nella sua attuale struttura. Mi è tuttavia consentito di mettere l’accento su un singolo punto. La scuola non deve mai dimenticare di avere a che fare con individui ancora immaturi, ai quali non è lecito negare il diritto di indugiare in determinate fasi, seppur sgradevoli, dello sviluppo. Essa non si deve assumere la prerogativa di inesorabilità propria della vita; non deve essere più che un gioco di vita.

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