Ieri, da tutto il mondo, messaggi di gran dispiacere per la morte dello scrittore Luis Sepúlveda, ma soprattutto manifestazioni di consenso e di gratitudine per la sua intensa attività letteraria attraverso la quale ha regalato a tutti la voglia di vita e la strada per percorrerla in libertà, ma anche per essere stato un personaggio simbolo delle persecuzioni della dittatura cilena: esperienza da cui ha dato voce a tanti come lui, o che diversamente da lui, non ce l’hanno fatta…
Amici in tutto il mondo, anche in Italia…
Su Clarus rilanciamo uno stralcio dell’intervista che nel 2014 ha concesso a Carmine Mastroianni, docente e scrittore, originario di Alvignano (che a sua volta l’ha gentilmente concessa a noi in questa circostanza), quando nel 2014 Sepúlveda con Carlo Pedrini diede alle stampe il libro “Un’idea di felicità”.
di Carmine Mastroianni
Come si definirebbe Luis Sepúlveda scrittore?
Per uno scrittore resta sempre difficile definire se stessi, anzi – direi – impossibile. Ciò premesso, già in altre occasioni mi sono compiaciuto di sentirmi un lontano nipote di Cervantes, e spero sempre che il grande Miguel non me ne voglia!
Perché proprio Cervantes?
Deve sapere che durante la mia infanzia i personaggi di Miguel de Cervantes, di Melville e dell’amatissimo Emilio Salgari sono stati i miei compagni di giochi. Sono cresciuto accanto a Don Chisciotte, al capitano Achab, a Sandokan, sono stati loro a far germogliare in me il desiderio di narrare e poi di scrivere storie. Cervantes, per tornare alla sua domanda, è il moderno maestro dell’ironia, aveva un modo originalissimo di osservare e poi raccontare la realtà, quell’ironia insomma che non scade mai nella volgarità né tantomeno nel sarcasmo che, invece, mortifica e offende. D’altronde ridere o per meglio dire sorridere delle situazioni della vita è una caratteristica innata dei cileni, noi abbiamo questa sorta di risposta immunitaria ai virus della vita, ci ridiamo su, non ci abbattiamo mai, anzi, ne traiamo un giovamento che vale come una lezione per la vita. L’ironia come antidoto al male.
E lei ne sa qualcosa di momenti brutti. Mi riferisco al suo periodo di reclusione sotto Pinochet. Ne vuole davvero parlare?
All’epoca, siamo nel 1973, facevo parte della guardia personale di Salvador Allende, eravamo chiamati il Grupo de amigos personales di stanza al palazzo presidenziale. Conservo un ricordo bellissimo del presidente Allende, un uomo politico in cui buona parte dei cileni e di noi giovani riponevamo grandissima fiducia. Durante il colpo di stato ero lì e fui fatto prigioniero insieme a molti dei miei compagni. Subimmo un processo sommario, roba di poche ore davvero, alla fine l’avvocato d’ufficio che ci aveva per così dire difeso, ci venne ad annunciare tutto festante che eravamo stati fortunati, poiché invece della prevista pena di morte ci avevano condannato ad “appena ventotto anni di carcere duro”. Le dicevo dell’ironia cilena!
Come andò?
All’inizio assai male poiché fummo tradotti nel penitenziario di Temuco, a settecento chilometri a sud di Santiago. Stavo in una celletta dove non ci si poteva nemmeno stendere per dormire, riuscivo appena a rannicchiarmi. Cibo poco e cattivo, freddo e maltrattamenti: ci torturavano di continuo nella speranza che confessassimo i nomi di chi ancora non era stato catturato. Una delle pene più atroci a cui eravamo sottoposti era lo strappo delle unghie dei piedi o delle mani, spesso anche con tenaglie arroventate: ci facevano udire le grida di chi veniva sottoposto alla tortura in modo da farci cedere psicologicamente. Dei ventotto anni ne trascorsi a Temuco soltanto due, ma posso dirle che furono interminabili e hanno certamente segnato la mia vita e quella di molti miei amici. In tanti, troppi, ci hanno lasciato la vita.
Poi ci fu un secondo arresto
Certamente, poiché con la mia attività di scrittore ero già molto noto anche oltre il Cile, per cui fui scarcerato dietro pressioni internazionali. Tuttavia il regime non sopportava il mio militante impegno politico contro la dittatura. Fui nuovamente processato e questa volta pubblicamente, per poi trascorrere alcuni mesi in cella e infine vedermi commutare il resto della pena in esilio. Fu l’occasione per scoprire il mondo e venire in Europa… nulla accade a caso Mastroianni.
Torniamo al tema del nostro incontro: il suo libro “Un’idea di felicità”, edito da Guanda, e scritto in collaborazione con Carlo Pedrini di Slow Food. Che idea ha lei della felicità, specialmente dopo le cose che mi ha raccontato sulla sua prigionia?
Viviamo in un’epoca dove l’imperativo è la fretta, un male messo in moto da ritmi di lavoro disumani e non più tollerabili, dove il tempo per vivere è divenuto un lusso per pochi. Nel libro, come ha potuto leggere, io e Carlo dialoghiamo proprio di questo, del modo che l’uomo – specialmente occidentale – ha di poter scappare da una prigione ancora più cupa di quella in cui mi aveva rinchiuso Pinochet: la galera del falso benessere venduto a poco prezzo.
Si spieghi:
Le cose non sono così a buon mercato come vogliono farci credere, dal cibo all’abbigliamento, dal turismo ai mezzi di locomozione,Lei vola spesso con pochi euro? Mangia cibo a buon mercato? Credo di essere stato chiaro.
Così mi fa sentire in colpa…
Lo siamo tutti, non mi escludo. Mi viene in mente la miseria e la povertà di tanti lavoratori, penso al Cile e ai minatori di Chuquicamata dove si trova la miniera di rame a cielo aperto più grande del mondo, nella regione di Antofagasta, un buco che è come una ferita fatta nel ventre ormai insterilito della terra. Penso alla martoriata Amazzonia, penso all’Africa. I molti aneddoti e i tanti personaggi del libro vogliono, sempre con la leggerezza e l’ironia di cui le dicevo all’inizio, portarci a riflettere sul nostro presente per essere più consapevoli di ciò che potrà essere il nostro futuro. La lentezza non è un disvalore, come vogliono farci credere, come ci insegnano persino a scuola oggi!, è invece la dote indispensabile e sublime che consente di assaporare la vita in ogni suo aspetto e goderla davvero in pienezza, nel rispetto dell’ambiente e dell’umanità.
Un esempio di lentezza da lei praticata? (Si apre in un bel sorriso)
In tutto il Sudamerica uno dei piatti tipici è l’asado, l’arrosto alla griglia. Sembra una cosa banale, ma ogni bravo cileno, argentino, uruguaiano possiede il suo segreto per accendere il fuoco. Io ho sviluppato il mio e me lo tengo stretto. Sa è una cosa lunga e per esaltarne il sapore e la consistenza la carne deve essere cotta lentamente, anche per ore, condita con tanto chimichurri, una salsa di aglio, prezzemolo, pimento, olio, sale, aceto (Io ho un segreto anche nelle dosi del chimichurri). Prima mi ha detto che è un bravo cuoco, forse alla fine della nostra chiacchierata le svelerò qualche trucchetto! Insomma intorno all’asado, mentre armeggio e la carne inizia a cucinarsi in una nuvola di profumi, si chiacchiera e si scherza con gli amici, si parla del più e del meno, ma anche di cose serie e importanti, senza fretta, senza che ci siano tensioni o rivalità. Quando ci si ritrova intorno al fuoco e al buon cibo è per raccontarci qualcosa: in fondo, se ci pensa, forse è per dirci con disincanto chi siamo davvero.
Ciò avviene anche quando scrive?
Certamente. Si lavora quando arriva l’ispirazione, e si aspetta, stando molte ore davanti ad un foglio bianco e, alla fine, se la giornata è stata davvero propizia, i personaggi mi avranno detto qualcosa in più di loro stessi e della loro vita. Bisogna saper star dietro le proprie creazioni poiché, in quel mondo fantastico che è la scrittura, l’autore è soltanto apparentemente il regista del tutto: sono invece i suoi personaggi a vivere e a narrare le avventure con la lentezza e la calma di chi sa di avere tutto il tempo del mondo a disposizione, mentre chi scrive quel tempo non sempre lo possiede. Come imprecava Flaubert abbiamo la sventura, noi mortali scrittori, di creare storie immortali e personaggi che non conoscono la vecchiaia e la morte: anche questa si chiama ironia.