Noemi Riccitelli – Riti, tradizioni, preghiere, comandamenti, testi sacri. Ogni religione ne ha di propri e ciascuno di essi, in un modo o nell’altro, ci influenza, diventa parte del nostro modo di essere e di approcciare alla realtà.
Nella maggior parte dei casi fin da piccoli riceviamo un’educazione religiosa, una linea guida che possa orientare le nostre scelte in materia di fede. Tuttavia, la laicità del nostro Stato garantisce la piena libertà di culto di ogni cittadino e, quindi, la possibilità di esprimere il proprio credo senza costrizioni, purché nel rispetto degli altri.
Accade però che nella nostra vasta realtà esistano comunità in cui la fede e il sentimento religioso siano vissuti e interpretati rigorosamente, tanto da definire mondi paralleli, in cui non è ammissibile superare l’ortodossia, quella che letteralmente è “la giusta opinione, verità” decantata.
Potrebbe venire a mente subito l’Islam: il credo religioso considerato oscurantista per eccellenza, quello delle tante privazioni, della donna sottomessa alla volontà dell’uomo.
Tuttavia, anche a New York, la città del melting pot, dell’intreccio di culture, proprio lì a Williamsburg, Brooklyn, tra boutique chic, caffè di tendenza, murales, è insediata la comunità Satmar di ebrei chassidici.
Originari dell’Ungheria, stabilitisi negli Stati Uniti dopo il Secondo Conflitto Mondiale, si tratta di ebrei discendenti o essi stessi sopravvissuti alla tragedia dell’Olocausto. Ciò che li caratterizza è, più di tutto, la volontà di ricostruire le radici culturali e umane perdute, quei 6 milioni di ebrei morti nei lager nazisti.
Questo proponimento si traduce in uno stile di vita dominato da quello che può essere considerato un vero e proprio codice civile alternativo e parallelo alla società occidentale e moderna in cui la comunità è inserita. Lontani da tutto ciò che è mondano, l’unica preoccupazione della comunità sembra essere il perpetuarsi della loro generazione: le donne vengono date in spose giovanissime, in modo da poter generare quanti più figli possibile, private della possibilità di istruirsi completamente, gli uomini lavorano e studiano i testi sacri, tutti indossano abiti particolari e praticano atti di osservanza religiosa al limite del meticoloso.
Ovviamente, recuperare e preservare la propria cultura significa anche parlare una lingua specifica, in questo caso, lo “yiddish”: lingua di origine germanica che mescola inglese, ebraico e tedesco.
È in questo contesto che si sviluppa la recentissima e ormai popolare serie Netflix Unorthodox: basata sulla storia vera di Deborah Feldman, raccontata nella sua autobiografia Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots, best-seller del 2012.
La serie si compone di 4 episodi, diretti dalla regista Maria Schrader e scritti dalle autrici Anna Wigner e Alexa Karolinski, un team di donne per una vicenda dal forte impatto emotivo.
Protagonista è Ester Schwartz, interpretata dall’attrice israeliana Shira Haas: per “Esty”, così come viene chiamata affettuosamente, la vita all’interno della comunità è rassicurante, perché circondata dagli affetti, in particolare, la cara nonna che l’ha cresciuta, ma al tempo stesso anche alienante e senza dubbio dura.
La giovane sa di non poter esprimere a pieno la sua personalità curiosa, soprattutto la sua passione per la musica, vietata alle donne della comunità, come tante altre comuni occupazioni.
Quando viene promessa in sposa all’altrettanto giovane Yanky Shapiro, impersonato dall’attore Amit Rahav, Esty è contenta, sta aderendo ai dettami della sua comunità e benché non conosca il futuro marito, prova subito ad essere sincera con lui. Durante il primo incontro con Yanki, ella stessa gli confida di essere “diversa” dalle altre ragazze della comunità e lui, teneramente, afferma che “la diversità è bella”.
Tuttavia, nonostante le migliori premesse, dopo un anno di matrimonio infelice, oberata dalle responsabilità e dalle aspettative di un’intera comunità, Esty decide di scappare a Berlino, la città dove anche sua madre era fuggita 15 anni prima. Nonostante le tante limitazioni che il suo essere stata educata secondo altri precetti comporta, è pronta a vivere un’altra vita.
La serie, infatti, è costruita raccontando il passato di Esty a New York (che coincide con la personale esperienza di Deborah Feldman) e il suo presente (inventato dalle autrici) a Berlino: la rinascita della giovane protagonista ha inizio paradossalmente nella città in cui è stato deciso il tragico destino del suo popolo e dove, ancora oggi, molto forte è il senso di colpa del popolo tedesco per gli episodi storici che hanno macchiato la loro coscienza civile.
Impossibile non entrare in empatia con la giovane Esty, divisa tra l’amore per la sua famiglia, ma al tempo stesso la determinazione, più forte di quell’affetto (e forse proprio questo sentimento risulta per lei difficile da ammettere), di realizzarsi e affermare sé stessa, la sua volontà prima di quella che il Dio evocato dalla sua comunità vuole per lei.
E’ inevitabile, nel corso della visione, porsi delle domande sulla ricezione dei precetti religiosi, specie per un occhio esterno a quel tipo di vita religiosa: può Dio chiedere agli uomini di sacrificare a tal punto la loro vita? Vivere per realizzare un fine ritenuto nobile, giusto e sacro, ma che mortifica l’animo umano, stroncando aspirazioni, passioni e desideri?
Un mondo di prescrizioni e divieti, in cui non c’è posto neanche per un’educazione sentimentale: Esty e Yanky, seppur rispettosi l’uno dell’altra, non si conoscono e il loro matrimonio è pensato solo per la procreazione. Non c’è mai un momento di vera e intima intesa di coppia, se non alla fine, quando è troppo tardi.
La comunità ebrea chassidica sembra vivere all’ombra del suo triste passato, che rimane innegabile, assumendo su di sé una responsabilità che forse va oltre ogni azione pensabile: non si può vivere la fede nel rammarico e nel rancore, considerando indegni e perversi tutti gli altri, i “non-ebrei”, come vengono definiti più volte nella serie.
Certamente, il giudizio verso una questione così delicata non è mai facile: la storia e l’orgoglio di un intero popolo meritano sensibilità e accortezza e produzioni come questa serie possono rappresentare l’avvio di un confronto e dell’opportuna conoscenza di una realtà tanto vasta e articolata.
Unorthodox, infatti, ha tutta la forza di una serie TV nel raccontare una storia profonda, proponendo una narrazione avvincente, ma anche il pregio dei dettagli minuziosi che la rendono un documento di testimonianza pregevole e ricco.
La serie è la prima ad essere recitata in yiddish, lingua poco studiata, di nicchia, prerogativa di queste comunità, ma che ora potrebbe conoscere una diffusione “pop”; ancora, la cura nelle scenografie e nei costumi, che hanno richiesto delle incursioni, con scatti e appunti, nel quartiere di Williamsburg per osservare da vicino i membri della comunità. Infine, ma non certo per importanza, le interpretazioni del cast: far trasparire le emozioni è il lavoro dell’attore, ma comunicare le inquietudini di un mondo complesso ed estremo, è talento.
Quando Etsy sta per partire per Berlino, in un momento di confidenza con l’amica che la aiuta a organizzare la sua partenza, dice “Forse Dio si aspettava troppo da me”: ma Dio che cosa si aspetta da noi? Questa è la domanda che mi sono posta da quando ho ascoltato la protagonista pronunciare la sua affermazione: forse non c’è una risposta e anche Dio ha fede in noi, specie nei progetti che più ci soddisfano e non c’è ortodossia che tenga.