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Covid19 / La parola “esperta”. Racconto a due voci dal Centro diocesano per la famiglia

Come sono stati gestiti i fragili pazienti in terapia psicologica? E come hanno reagito alla relazione a distanza? Quale aspetto positivo è emerso dal dramma di questa lunga quarantena? La parola alle dottoresse Rosaria De Angelis e Concetta Riccio

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Rosaria De Angelis è una psicologa-psicoterapeuta.
Concetta Riccio è assistente sociale specialista.
Entrambe condividono l’esperienza professionale presso il Centro diocesano per la famglia “Mons. Angelo Campagna” insieme al direttore Davide Cinotti. 
Circa due mesi di quarantena, ma servizi mai sospesi: telefonicamente non hanno mai smesso di accomagnare, sostenere, stare accanto alle tante persone in cura presso il Centro. 
La loro testimonianza, oggi, è sintesi e lettura di questo “spaccato” inaspettato e difficile da gestire e da raccontare soprattutto quando sei parte del tempo e delle scelte e delle paure che vivono i tuoi fragili pazienti. Le loro parole si muovono tra la scienza e i sentimenti e provano a raccontarci un mondo in ombra che sopravvive solo grazie alla luce della relazione e del contatto umano. 

Tra desiderio di cura e voglia di libertà
Rosaria De Angelis – Il lockdown l’ho sentito e percepito anche io come tempo sospeso e particolare. Da subito mi è sovvenuta un’immagine dei miei pazienti, come quella dei desiderantes, descritti da Giulio Cesare nel De Bello Gallico, in attesa sotto un cielo di stelle…proprio così li ho percepiti, sospesi, in attesa, desiderosi. Credo che il loro desiderio nel riprendere il percorso terapeutico, interrotto per via del covid-19, abbia un duplice aspetto: la cura di sé e il ritorno alla quotidianità, interrotta bruscamente e che è sembrata essere senza soluzione di continuità.
“Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti” (A. de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe). Questi concetti sicuramente ci fanno riflettere. I nostri riti interrotti che peso hanno avuto? Cosa ha rappresentato sospendere la quotidianità? Anche il rito dell’incontro, in una stanza di terapia, tende a RI-strutturare una quotidianità non più sfalsata nel Tempo e nello Spazio, che sono poi i parametri della “cura”. Riappropriarsi del concetto del tempo è la massima espressione dell’uomo libero, libero anche da sovrastrutture. Il desiderio spasmodico dell’incontro è stato legato anche all’idea di riappropriarsi della propria quotidianità. Ciascuno si porta dentro delle risorse utili ad affrontare poi gli eventi previsti o imprevisti che il vivere porta…non faccio solo riferimento alla resilienza, perchè per qualcuno il lockdown potrebbe certamente rappresentare un trauma. Faccio riferimento alle risorse familiari del bambino oppure un adolescente o ancora dell’adulto che ha a propria disposizione. Il tipo di attaccamento/accudimento, quale relazione particolare che segna tutta la nostra vita. Quel tipo di rapporto andrà ad influenzare tutte le esperienze che il bambino, poi adulto, vivrà. La base sicura sarà quella che permetterà di vivere anche l’esperienza seppur terrificante del lockdown con una speranza maggiore. Per molti il distanziamento fisico era preesistente al covid-19. Si è inficiato poco questo aspetto del contatto fisico. Infatti, la maggiore difficoltà tra gli adulti è proprio quella di abbracciarsi…eppure l’amigdala produce ossitocina in soli 30 secondi di abbraccio. Ormone in grado di dirottare la nostra prosocialità ad esempio. È nato un nuovo tempo. Sono ritornati i nostri incontri. Fin ora la mascherina non ci ha impedito di leggere le emozioni stampate sul volto dell’altro…ben RI-tornati!

Il tempo del Covid 19 in tre fasi
Concetta Riccio –
In questi mesi la mia riflessione da professionista e da cittadina mi ha portato a dividere questo tempo “Covid19”  in tre fasi, queste  hanno a che fare molto con l’egoismo e le paure umane.
Torniamo per un attimo a inizio febbraio,  quando la  mente di molti, seppur con un velo di compassione, fiera,  pensava: “C’è un’epidemia in Cina?, certo con la loro singolare alimentazione è normale che capiti, poi sono così tanti…” Questa è stata la prima fase di approccio al problema, quella di distacco, la più egoistica.  E poi cosa è successo? Fase due: il virus arriva nella bella Italia. La gente vive un senso di smarrimento nuovo: “Non doveva accadere a noi, proprio a noi!”. Ho impresse le immagini del carnevale, dove questa incredulità è riuscita a spingere le persone in piazza con i propri figli. E poi arriviamo alla fase 3. La popolazione affronta ben due situazioni sconosciute: la pandemia e una limitazione delle libertà personali. È proprio in questa fase che l’individuo è  stato messo alla prova, è qui che concentriamo l’analisi principale. Cosa è successo? La prova del nove! Alcune famiglie hanno utilizzato questo tempo come un’occasione, altre hanno dovuto guardare allo specchio relazioni al capolinea. Per alcuni questo tempo è stato il tempo di sintomi, come l’ansia o disturbi dell’umore, che nella routine  non avevano spazio. Di contro,  persone che credevano di avere tante fragilità e invece, in questo tempo, hanno trovato risorse nuove. Tornando al Centro Diocesano per la Famiglia, dove lavoro come assistente sociale specialista da sei anni: cosa mi aspetto? Mi aspetto sicuramente molti nuovi ingressi appartenenti ad alcune “situazioni tipo” citate nella fase 3 e di questo stiamo già avendo riscontro. I nostri utenti hanno tutti chiesto di riprendere il percorso che avevano interrotto però, con soddisfazione, aggiungo che, molti di loro, in questo tempo hanno trovato strumenti importanti di fronteggiamento, hanno colto nel dramma l’occasione, forse, di un tempo da utilizzare meglio.

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