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RECENSIONE. “Brigantaggio Italiano. Considerazioni e studi nell’Italia unita”

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Matese tra moderno e contemporaneo

Abbiamo saputo davvero leggerlo il brigantaggio? Il valore dei documenti e della ricerca a margine del libro di Marco Vigna

di Armando Pepe

Non può esserci una seria opera storiografica senza una solida base documentale, altrimenti inevitabilmente essa presterebbe il fianco a contestazioni, lievi e marginali o pesanti e inoppugnabili che siano. A maggior ragione, quando s’affronta un tema delicato, quale il brigantaggio meridionale postunitario, bisogna procedere sistematicamente, come ha fatto Marco Vigna, autore del libro “Brigantaggio Italiano. Considerazioni e studi nell’Italia unita” (Interlinea, Novara, 2020, pp. 559), pubblicato di recente, con prefazione di Alessandro Barbero. Battendo un terreno delicato per via della quantità sterminata di fonti, riferimenti e fatti, ricondotti ad organicità dal paradigmatico lavoro esegetico di Carmine Pinto “La Guerra per il Mezzogiorno”, questo volume, seguendone la scia, fa dello scavo archivistico (condotto da Giuseppe Perri) il proprio punto di forza. Scritto con passione, che talvolta cede alla veemenza, il testo offre molte chiavi di lettura ed altrettanti spunti, adeguatamente sottolineati dai titoli ad inizio dei capitoli, prendendo l’abbrivo dalla vessata questione interpretativa, rigettando in pieno la figura del “bandito sociale”, forse verosimile in un film in bianco e nero con Amedeo Nazzari, ma enormemente distante dalla realtà.

All’autore appaiono giustamente obliterate le argomentazioni del libro “Storia del brigantaggio dopo l’Unità” di Franco Molfese, che spesso sembrano prese a prestito dalla militanza politica e destano l’impressione di un retaggio ideologico che ne rende desultoria la narrazione. Trova convincente, invece, l’analisi di Pinto, secondo cui il brigantaggio postunitario è stato «una forma di guerra civile che s’inserisce in un contesto cronologico e geografico che travalica l’Italia del 1861-1870. Essa [la guerra civile] sarebbe stata una fase del contrasto tra rivoluzione e reazione iniziato alla fine del secolo XVIII e che avrebbe coinvolto l’Europa e l’America assieme (pp.41-42)».
Evidentemente lasciano il tempo che trovano le posizioni ucroniche e distopiche da taluni sostenute. Nel secondo capitolo si passano in rassegna alcune microstorie: la banda del sergente Pasquale Romano, la banda Franco, di cui si elencano per intero i 164 capi d’imputazione (forse sarebbe stato meglio metterli in una nota a piè di pagina), le bande Fuoco, Pace e Guerra, la comitiva Ciccone, la comitiva Iacovone, la banda di Cosimo Giordano (operante nel Matese), la banda Barone, la comitiva di Ninco Nanco, le cui gesta collettive erano rivolte prevalentemente contro il popolo e contro la media borghesia.  Il campionario dei reati era davvero ampio: omicidio, sequestro di persona, grassazione, killeraggio, furti a iosa. A pagina 147 si conclude il secondo capitolo, ciò rende la misura del lavoro (anche da un punto di vista prettamente materiale) fatto da Marco Vigna e Giuseppe Perri. Nel terzo capitolo, di taglio prevalentemente antropologico e in cui si parla di «antropofagia e stupro», talvolta si indulge al particolare macabro o granguignolesco, sia pure sostenuto da una notevole messe di fonti, soprattutto letterarie. Si fa notare tuttavia che la subcultura (senza alcuna accezione negativa) brigantesca vive nei ricordi che ancora si tramandano oralmente nel Meridione. Il quarto capitolo tratta del parallelismo tra brigantaggio e mafie, mentre il quinto della «connivenza o del contrasto» che la società meridionale riservava alla figura del brigante: si analizzano in particolare con sagacia le cause sociali del brigantaggio, che nel Regno duo-siciliano era endemico come in altre parti d’Europa. La lotta al banditismo non fu un’invenzione sabauda, ma già era praticata dai napoleonidi, dai Borbone e prima ancora dai Viceré spagnoli, quando fu istituito il Tribunale di Campagna.
La disamina sociologica, portata avanti con dovizia di particolari e che per i dati si serve di lavori cronologicamente più vicini a noi (tra cui “Borbonia Felix” di Renata De Lorenzo, e “Perché il Sud è rimasto indietro” di Emanuele Felice) tocca punti fondamentali: abolizione del feudalesimo e  suoi limiti, resistenza del latifondo siciliano, diffusione della povertà nel Regno delle Due Sicilie, banditismo nobiliare, ricostruzioni e reinterpretazioni romanzesche (come quella di Carlo Levi in “Cristo si è fermato ad Eboli”, cui si potrebbe aggiungere quella contenuta in “La conquista del Sud” di Carlo Alianello), che tanto hanno contribuito alla creazione di una “verità” altra ed alternativa a quella effettuale e realmente svoltasi. Nel sesto capitolo si torna alla repressione del brigantaggio nella sua dimensione diacronica, dal medioevo all’età moderna e contemporanea. Nel settimo e nell’ottavo capitolo, che è l’ultimo, si indaga sulla tipologia dei briganti: pregiudicati e ricercati, disertori e sbandati, brigantaggio come secondo lavoro (prassi usuale nelle zone interne, mi sia consentito al riguardo di suggerire il libro “Appennino. Economie, culture e spazi sociali dal Medioevo all’età contemporanea” di Augusto Ciuffetti), arricchimento personale, costrizione, il mito del torto subito. Gli archivi di Stato frequentati per la ricerca sono davvero molti, in testa quello di Torino (ma anche quelli di Caserta, Napoli e Potenza) che si è rivelato ricchissimo di fonti. In sintesi è un lavoro meritorio e che getta nuova luce su fatti vicende censite e pertanto ignote.

 

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