Noemi Riccitelli – Fresco di candidature ai prossimi Golden Globes (miglior regia, miglior attore non protagonista per Sacha Baron Cohen, miglior film drammatico, miglior colonna sonora originale, miglior sceneggiatura), Il processo ai Chicago 7 (The trial of the Chicago 7), scritto e diretto da Aaron Sorkin, è stato rilasciato su Netflix il 16 ottobre 2020.
Il film narra la vicenda giudiziaria che nel 1968 coinvolse alcuni attivisti contro la Guerra in Vietnam, accusati di essere i mandanti dei sanguinosi scontri tra i manifestanti e la polizia/Guardia nazionale americana in occasione della convention del Partito Democratico a Chicago.
La sceneggiatura di Aaron Sorkin delinea le coordinate della vicenda con precisione, definendo con una modalità quasi manichea le due parti che si contrappongono, evidenziando la faziosità del processo e di coloro che lo hanno sostenuto.
Da una parte ci sono i 7 imputati, ognuno rappresentante di gruppi vicini agli ideali di sinistra, anche se profondamente differenti tra loro: Abbie Hoffman (Sacha Baron Cohen), Jerry Rubin (Jeremy Strong), David Dellinger (John Carroll Lynch), Tom Hayden (Eddie Redmayne), Rennie Davis (Alex Sharp), John Froines (Daniel Flaherty) e Lee Weiner (Noah Robbins) che si ritrovano a Chicago per protestare contro l’allora Presidente USA Lyndon Johnson e la decisione riguardo la Guerra in Vietnam.
Dall’altra parte, c’è il governo federale degli Stati Uniti che, mal digerendo i movimenti di protesta frequenti in quell’anno, era deciso a metterli a tacere.
Lo spettatore è condotto nell’aula giudiziaria dove la vicenda è resa ancora più tesa dal giudice che presiede il processo, Julius Hoffmann (Frank Langella), un uomo d’altri tempi astioso e orgoglioso, che non lesina di attribuire accuse di oltraggio alla corte e punizioni ingiuste.
Eclatante è il trattamento che viene riservato a Bobby Seale (Yahya Abdul-Maaten II), a capo del celebre gruppo delle Pantere Nere, il quale pur non essendo coinvolto nelle vicende citate, viene incluso tra gli imputati per la sua presenza di sole quattro ore a Chicago nel giorno degli scontri, senza la possibilità di avere un avvocato.
La regia ricostruisce i fatti alternando l’iter processuale stesso, che ha del paradossale per lo smacco alla giustizia che vi si realizza, ai flashbacks che ricostruiscono gli episodi del giorno della violenza, per i quali il regista ricorre anche ad immagini di repertorio, dal momento che molte erano le emittenti televisive presenti sul posto quel giorno.
Tant’è che uno degli slogan pronunciati spesso dai manifestanti mentre la polizia è pronta a reagire ed attaccare, è proprio: “The whole world is watching!”.
Ciò che colpisce del film, tuttavia, è la sceneggiatura ricamata di ironia e satira, con battute brillanti affidate, in particolare, al personaggio interpretato da Sacha Baron Cohen, il leader Yippie Abbie Hoffman, che non si lascia scalfire dalla situazione e sfida, ostinato, il giudice e l’accusa, affermando convinto le idee che hanno ispirato le sue azioni.
Il film si mostra solidale con gli accusati e non lascia scampo a coloro che hanno contribuito alla corruzione del processo, se non al personaggio del giovane viceprocuratore Richard Schultz (Joseph Gordon-Levitt): quest’ultimo, infatti, non manca di sottolineare ai suoi superiori il non-sense alla base del processo, ma rimane integerrimo e fedele alla causa che gli è stata affidata.
Di rilievo è anche la presenza di Mark Rylance nel ruolo dell’avvocato difensore dei “sette”, William Kunstler, che strenuamente porta avanti il suo lavoro nonostante la cieca opposizione del giudice.
Infine, grazie all’intervento di un vero e proprio deus ex-machina, Ramsey Clark (Michael Keaton), un ex dirigente che sembra agire più per rivalsa personale che per reale interesse alla causa dei sette imputati, il processo trova un’appropriata risoluzione.
Quello che potrebbe sembrare l’ennesima narrazione e celebrazione di un momento memorabile della storia americana è, in realtà, una chiave di lettura della società americana odierna: tutt’altro che passato.
La riflessione immediata conduce, ancora una volta, alle recenti proteste del giugno scorso, le vicende del Black Lives Matter, gli atteggiamenti violenti della polizia e l’indirizzo eterodosso della politica americana stessa.
A più di cinquant’anni da avvenimenti come quello raccontato nel film, colpisce ancora la persistente ipocrisia sottesa alla società americana che nasconde, come con la polvere sotto al tappeto, problemi quali la questione razziale, il confronto democratico non sempre garantito e l’abuso di potere verso le categorie sociali più deboli.
La realtà cinematografica americana si mostra sempre sensibile a questi temi politico-sociali, abbracciando cause cogenti e dimostrando che il cinema non è solo “sospensione dell’incredulità”.