Di padre Fabrizio Cristarella Orestano
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III domenica di Pasqua
At 3 13-15.17-19; Sal 4; 1Gv 2,1-5; Lc 24,35-48
Nel testo di Atti Pietro ripete con coraggio al popolo il kerygma della Pasqua di Gesù di Nazareth con una parola chiara e anche compromettente: «Il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù che voi avete consegnato e rinnegato davanti a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete ucciso l’autore della vita (…) ma Dio l’ha risuscitato e di questo noi siamo testimoni». Una chiarezza che non è un’accusa per accusare ma un’accusa che vuole salvezza per gli uditori, infatti Pietro conclude dicendo: «Pentitevi dunque e cambiate vita perché siano cancellati i vostri peccati». Per questa proclamazione Pietro e Giovanni subiranno un arresto e delle minacce, per quell’annunzio al capitolo successivo saranno fustigati e ne saranno lieti perché «avevano subito oltraggio per amore del nome di Gesù» (At 5,41). Il kerygma pasquale genera questo amore che deve diventare il centro della vita del discepolo.
Nel passo sempre di Luca, ma tratto dall’ultimo capitolo dell’Evangelo, il kerygma è annunziato da Gesù stesso in tutti i modi, con tutto quello che è: rivelando il suo essere in mezzo a loro (“stette”, scrive Luca, e non “venne” o “apparve”, cioè: Gesù è ormai sempre nella sua comunità, si deve solo avere la fede per coglierne la presenza!), mostrando loro le ferite della croce, annunziando così la pace… mangiando con loro. Quelle ferite non sono accusa ma sono il modo in cui ormai Dio si dice e si mostra al mondo! Sono le ferite di un amore che per rimanere tale ha patito odio, oltraggio e morte! Se in Atti si dirà che Pietro e Giovanni saranno «lieti di patire oltraggi per amore del nome di Gesù» questo è perché essi compresero, fin da quella sera di Pasqua, che Colui, di cui sono fatti testimoni per sempre, aveva patito oltraggi, ferite e morte per amore del nome dell’uomo, per amore del loro nome! Mi pare straordinario!
La scena del Cenacolo, in questo racconto di Luca, ci mostra un Gesù che agisce da solo: Egli saluta, Egli parla, Egli mostra le ferite, Egli chiede cibo, Egli spiega le Scritture, Egli dà ai suoi l’incarico della testimonianza, Egli promette lo Spirito (a tal proposito è incomprensibile perché la pericope proposta dalla liturgia per questa domenica ometta il versetto 49 con la promessa dello Spirito!).
In tutto questo racconto i discepoli sono fermi e silenziosi… solo offrono il cibo a Gesù che l’ha richiesto; attorno a quello stare di Gesù in mezzo a loro si genera un silenzio e una sospensione di tutto … di loro sono detti, invece, i sentimenti: sconcerto, paura, turbamento, dubbio, stupore, incredulità, gioia… tutti sentimenti che denunciano la difficoltà a credere nella risurrezione. È così! Dinanzi alla risurrezione l’uomo resta dubbioso e incredulo, sia perché è fatto impensabile e fuori d’ogni orizzonte storico, sia perché ci si imbatte in una cosa troppo bella! Si direbbe: «Troppo bello per essere vero!». Ecco la gioia, di cui ci dice Luca, che mette limiti alla fede: «per la grande gioia ancora non credevano». La risurrezione è troppo bella, è troppo liberante, è troppo luminosa; è oltre ogni più felice ipotesi!
In questa scena Gesù si mostra in tutta la sua concretezza; Luca ci tiene molto ad affermare questa cruda corporeità della risurrezione non solo per contrastare le idee del suo ambiente greco per cui una risurrezione della carne non solo era impensabile ma anche disdicevole (ricordiamo che il pensiero greco di quel tempo era imbevuto di platonismo e neoplatonismo con tutto il disprezzo per la materia!), non solo per affermare la continuità tra il Crocefisso e il Risorto, ma anche per dirci che la risurrezione di Gesù afferra l’uomo in tutta la sua globalità e concretezza.
Tutto ciò, però, è coglibile solo da chi si fa aprire la mente all’intelligenza delle Scritture; proprio perché la risurrezione è tanto oltre il pensabile e il dicibile dall’uomo, solo la Scrittura e la memoria di Gesù possono far esplodere la vera fede nella risurrezione. La memoria di Gesù, di che uomo fosse, delle sue parole, dei suoi gesti, del suo amore, messa a confronto con la memoria Scripturarum fa cogliere la conformità e la coincidenza di Gesù e della sua vicenda, fino alla croce e risurrezione, con le promesse di Dio.
La Chiesa si è sempre compiaciuta di ripetere, nel simbolo di fede, questa conformità: “secondo le Scritture”. Un’espressione che bisogna saper leggere: vuol dire che tutta la vicenda di Gesù, dal principio alla risurrezione, è compimento delle Scritture che, proprio in quella vicenda, trovano a loro volta luce, ragione e pienezza. Non si tratta, dunque, di semplici compimenti puntuali di questa o quella profezia, ma si tratta di qualcosa di infinitamente più grande e più vasto.
Gesù, nelle cose che dice ai suoi, mette in stretta connessione le sue parole e la sua vita con loro («Era questo che vi dicevo mentre ero ancora con voi») con le Scritture: le due dimensioni si illuminano a vicenda. «Ora bisogna che si compia – dice il Risorto – tutto quanto» Egli già diceva riferendosi alle Scritture. Il verbo greco pleròo (“compiersi”) è usato al passivo per dire che è un compimento che opera Dio. La croce e la risurrezione sono il culmine di questo compiersi, senza di esse tutto sarebbe rimasto incompiuto e la vita di Gesù, e le sue parole di rivelazione del Padre e anche le Sante Scritture.
Perché tutto prenda luce, in quella sera di Pasqua, Gesù apre la loro mente all’intelligenza delle Scritture; ai due discepoli di Emmaus aveva “«spalancato le Scritture” (Cfr Lc 24,27) ora apre le menti. Insomma senza l’intelligenza delle Scritture la storia dell’umanità, e la stessa storia di Gesù, restano oscure. Nel capitolo 5 del Libro dell’Apocalisse è mostrato l’Agnello che solo può aprire i sette sigilli di quel rotolo che è la Prima Alleanza ma è anche la storia dell’umanità. Tutto questo, però, riguarda anche le nostre personali vicende; senza questa intelligenza delle Scritture restiamo ciechi. L’autore della Seconda lettera di Pietro lo dirà a chiare lettere: “La parola dei profeti è una lampada che brilla in un luogo oscuro” (2Pt 1,19).
La Parola contenuta nelle Scritture è il criterio con cui giudicare il quotidiano e intelligere la storia e le nostre personali vicende … quella Parola consegnata dal Risorto che è, a sua volta, il criterio per leggere le Scritture. Il confronto con questa Parola ci sottrae al rischio di costruirci a partire da noi stessi e di costruire Dio allo stesso modo. La Parola ci sottrae alle valutazioni mondane dei fatti della storia, ci dice di guardare tutto attraverso lo sguardo di Dio, la Parola smaschera le nostre menzogne interiori.
Con questa consegna il Risorto invia la Chiesa a testimoniare la Pasqua che è remissione dei peccati ed è speranza nuova. Sì, perché annunziare la remissione dei peccati è annunziare una grande libertà, è affermare che l’amore di Dio, che Cristo ci ha rivelato nella sua carne, è più grande del nostro male.
Per poter annunziare la conversione e la remissione dei peccati il Gesù di Luca chiede di fidarsi di un dono che viene dall’alto, il dono dello Spirito. Per questo i discepoli devono “sedere” in città (kathísate). Infatti lo Spirito è dono all’umile attesa di chi siede nella città, non è prodotto o pretesa dell’uomo. È dono dall’alto! È il dono necessario per la testimonianza e per continuare a scrutare le Scritture e ricordare la vicenda di Gesù! Senza lo Spirito promesso, atteso e donato, la Chiesa non può essere testimone; ecco perché questo versetto 42 è importante all’economia di questo racconto e non si può omettere.
Nello Spirito l’evento Gesù, circoscritto nel tempo e nello spazio può diventare l’oggi della Chiesa di sempre. È questo oggi, colmo di Cristo e di amore per il suo nome, che la Chiesa deve realizzare e mostrare al mondo.