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Commento al Vangelo. “Attendere Gesù” significa portare frutti di amore, di giustizia e di novità nella storia

Commento al Vangelo di domenica 14 novembre XXXIII del Tempo Ordinario - Anno B

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Di Padre Fabrizio Cristarella Orestano
Comunità Monastica di Ruviano Clicca per visitare il sito 

XXXIII domenica del Tempo ordinario – anno B
Dn 12,1-3; Sal 15; Eb 10,11-14.18; Mc 13,24-32

Siamo alle ultime due domeniche di questo anno liturgico e oggi ascoltiamo per l’ultima volta, in quest’anno, la voce dell’Evangelo di Marco (domenica prossima la Chiesa ci propone, a conclusione dell’anno, una pagina giovannea). Oggi l’evangelista ci conduce davvero alla fine o, per meglio dire, al fine della storia. Siamo nel capitolo che precede la narrazione della Passione e tutto questo capitolo è occupato da un lungo discorso che Gesù fa solo a quattro degli apostoli, a Pietro, a Giacomo, a Giovanni e ad Andrea (cf. Mc 13,3); è dunque come un discorso riservato, segreto; è una rivelazione per pochi, ma che poi dovrà essere comunicata a tutti (cf. Mc 13,37). Tutta la folla, ma neanche tutti i discepoli, non ne potrebbero portare il peso, né potrebbero comprenderla… bisogna avere pazienza. Dopo gli avvenimenti pasquali potrà essere divulgata per essere forza di consolazione e forza per la lotta.

Lo sguardo di Gesù allora si slancia oltre gli avvenimenti che sono alle porte, quelli della sua Pasqua che per ben tre volte ha preannunziato ai suoi, e apre loro questa conoscenza di ciò che deriverà dal mistero della Pasqua ormai imminente. Il linguaggio che Gesù usa è di tipo apocalittico, quindi carico di immagini, di segni e che abbisogna di una decodificazione per non esser letto come minaccia o come parole terroristiche: quegli astri che cadono, quel sole che non splende più e quelle potenze dei cieli sconvolte vogliono dire che ci sarà un nuovo ordine del cosmo, che «le cose vecchie sono passate» (2Cor, 5,17; Ap, 21,4), il mondo che conosciamo passa perché scocca l’ora di un mondo nuovo in cui il Figlio dell’uomo verrà con la sua gloria a dire una parola definitiva sulla storia.

La pagina comunica un senso di timore perché certamente quell’ora sarà anche ora di giudizio, ma comunica anche un grade senso di consolazione perché quell’ora sarà ora in cui sarà palese la vittoria dell’amore, la vittoria di Dio, ma soprattutto sarà ora di presenza di Colui che i discepoli di tutti secoli hanno amato e desiderato, fin dai tempi della Prima Alleanza… sarà ora in cui la sua presenza ci permetterà di vedere quel volto tanto atteso (cf. Es 33,23; Sal 11,7; Sal 27,8)… la sua presenza … non a caso la Chiesa cominciò a chiamare quel giorno del ritorno del Figlio dell’uomo con la sola parola Parusίa che significa proprio “presenza”. Anche la prima lettura, anch’essa tratta da un libro apocalittico, il Libro di Daniele, ci mostra questo duplice aspetto: timore e consolazione. In un tempo di grave pressura e persecuzione, tempo in cui i credenti possono cadere nel cinismo e nello scoraggiamento se non nel tradimento, c’è salvezza perché Dio, non solo si fa presente, ma dichiara di essere stato sempre vigilante sul suo popolo: «Sorgerà il gran principe Michele che vigila sui figli del tuo popolo».

Il testo di Marco, all’annunzio di fede, fa seguire dei moniti da parte di Gesù: sottolinea l’imminenza della Parusίa ma, contemporaneamente – e pare contraddittorio – precisa subito che nessuno conosce il tempo e l’ora di quella venuta, paradossalmente neanche il Figlio dell’uomo che ne sarà protagonista. In realtà Marco qui non si contraddice ma vuole comunicarci che l’attesa cristiana è complessa; possono esserci due atteggiamenti che sono entrambi errati e portatori di vuoto e di morte: ci può essere chi, vedendo tardare la Parusίa e vedendo che la storia è sempre la stessa e che continuano ad imperare guerre, morte, ingiustizie, dolori, iniqui che trionfano e giusti che patiscono, può allentare l’attesa e divenire cinico fino a farsi mondanizzare, fino ad adeguarsi a quel mondo che è sempre uguale che non è per nulla cambiato; dall’altro lato ci può essere chi, presumendo l’imminenza immediata della Parusίa, perde ogni interesse alla storia ed alla lotta che il credente deve fare, nel quotidiano, per essere segno di un’alterità che racconti Dio.

I due atteggiamenti sono entrambi mortiferi perché davvero lasciano la storia così com’è: i primi vi si adeguano, i secondi se ne disinteressano e così l’Evangelo viene spento, reso innocuo e inoffensivo. Marco ci vuole dire che l’imminenza della Parusίa non è un’imminenza cronologica, è un’imminenza, vorrei dire, di certezza, è l’imminenza di un compimento già avvenuto, ma che deve ulteriormente compiersi, è l’imminenza del “già e non ancora”. Una simile imminenza vuole che il credente vigili come se l’ora fosse oggi, ma senza affannarsi in impazienze e previsioni; insomma si vigila come se tutto avesse il suo fine oggi ma si lotta, contemporaneamente, come se questo fine fosse lontano!

Solo così si può avere vera incidenza nella storia. È il solito pericolo che la Chiesa ha corso per secoli (e che ancora rischia di correre!), quello di installarsi nella storia adeguandosi alla storia e diventandone addirittura un ingranaggio “religioso” e giustificativo; questo mi pare il pericolo più grande e da temere anche perché è il più facile da correre in quanto questo atteggiamento di adeguamento alla storia sorge dall’evidenza dei meccanismi mondani a cui è più facile assentire che opporvisi. L’altro atteggiamento è tipico non solo di certi gruppi millenaristici, che spuntano in ogni secolo e che sono sempre pronti a mostrare i calcoli del giorno della fine del mondo, ma è soprattutto l’atteggiamento spiritualoide di chi pensa che, per essere pio, il cristiano debba fuggire dal mondo, disprezzarlo e disinteressarsene per pensare solo allo “spirito”… è l’atteggiamento di chi storce il muso davanti alla concretezza della storia con cui si è chiamati a compromettersi e fa questo per un preteso distacco ammantato da evangelo.

La parola di oggi, invece, ci porta nella storia, ma con lo sguardo rivolto all’oltre e vivificato dalla speranza. La parola di oggi ci vuole nella storia come dei coraggiosi che lottano, ma con una certezza nel cuore: la vittoria di Cristo è sicura. Questa certezza sarà la forza del «piccolo gregge» di cui ci ha detto Gesù (cf. Lc 12,32), sì, un piccolo resto che sarà sempre più tale; la diminutio che la Chiesa vede al giorno d’oggi non deve farci temere, deve invece darci la certezza di una vera possibilità di ricominciamento nella verità e senza stolti sogni di restaurare una christianitas che appartiene invariabilmente al passato e a un passato da non rimpiangere. Questo «piccolo gregge» lotterà nella storia attendendo il Cristo che tornerà. Attenderlo significa portare frutti di amore, di giustizia e di novità nella storia perché Lui, al suo ritorno, come cantiamo nella notte di Pasqua, trovi accesa la fiamma dell’Evangelo e da lì possa iniziare ad accendere di vita tutto il cosmo portando a compimento ciò che noi, pur lottando, non abbiamo saputo portare a compimento! Che grande consolazione!

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