di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)
Prima domenica di Avvento
Ger 33, 14-16; Sal 24; 1Ts 3,12-4,2; Lc 21, 25-28.34-36L’Avvento non è (o, almeno, non è semplicemente) tempo di preparazione o di attesa del Natale: il Natale, in quanto mistero del Figlio di Dio che viene al mondo nella carne umana, è un fatto del passato e, in quanto tale, esso non può essere oggetto di attesa… non si attende qualcosa che è passato! L’Avvento è, però, un tempo che trae il suo significato proprio dal suo rapporto con il Natale, nel quale termina e si compie: esso è il tempo orientato alla venuta del Signore nella storia… venuta nella quale la storia raggiungerà il suo fine.
Per i discepoli del Signore la venuta del Signore sarà un ritorno, dal momento che egli è già venuto nella pienezza dei tempi (cf. Gal 4,4): l’Avvento è, dunque, il tempo che educa il credente a puntare lo sguardo sul ritorno del Figlio dell’uomo; è il tempo in cui imparare ancora una volta a sentire che la storia non è un circolo chiuso in sé, ma è una storia aperta e orientata, in cammino (sia pure attraverso le strade spesso incomprensibili e insensate del mondo) verso un orizzonte di senso e di compiutezza. L’Avvento determina così il ritmo e la pienezza del cammino del credente nell’oggi, cammino che non può rimanere prigioniero di un presente incapace di andare al di là di sé: l’Avvento apre l’oggi dell’uomo al futuro di Dio.
Alla fine dell’Avvento c’è il Natale, ma, soprattutto, c’è ciò che il Natale significa, ossia la memoria della venuta del Signore, su cui riposa la speranza certa del ritorno di Gesù Signore al termine della storia. Il Natale dice che, se già è venuto un giorno nell’umiltà della natura e della vicenda umane, così verrà di nuovo, tornerà, e non verrà meno alla sua promessa. La storia è tutta orientata verso il ritorno di Gesù nostro Signore! Ecco allora l’imperativo della vigilanza, che l’Evangelo di Luca fa risuonare all’inizio di questo avvento: «Vegliate in ogni momento pregando».
È necessario avere lo sguardo puntato su quella venuta, di cui bisogna saper cogliere i segni, ma non basta l’essere svegli! Occorre nutrire la vigilanza con la preghiera, che è l’orientamento della propria interiorità a Dio: da essa dipende la capacità di “sopportare” la Sua venuta e il Suo giudizio. Vigilare significa disponibilità a vivere l’oggi in pienezza e senza sconti, con lo sguardo puntato a una venuta il cui tempo è noto solo al Padre, anche se di essa vi sono alcuni segni premonitori: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore per il fragore dei mari e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte».
Si tratta di segni che rivelano la “precarietà” del mondo e di coloro che lo abitano: è nell’incontro con il Veniente, infatti, che il mondo manifesterà tutta la sua caducità e la sua instabilità. Tuttavia, il credente è chiamato a vivere nella coscienza di questa costitutiva fragilità del mondo, assumendola e superandola ogni giorno nell’orientare a Dio tutto il proprio sentire, il proprio pensare e il proprio agire. L’alzare il capo cui Luca invita, d’altro canto, non è atto di orgoglio, ma è volgere il proprio sguardo al Figlio dell’uomo, al Crocefisso che torna, qui, in questa storia, per portarla a compimento. Questa certezza consente all’uomo di non smarrire la speranza, benché la storia appaia a volte un tronco secco che non può più dare vita.
Ogni uomo è così chiamato a vivere il proprio oggi, come luogo della possibile e imprevedibile venuta del Figlio dell’uomo e questo richiede attenzione, per non essere colti da quel torpore della mente e del cuore che non consente di vedere e di accogliere ogni altro nella sua specifica alterità. Vigilare è non permettersi di rimanere in balia di questo sonno interiore.