
La sua figura è la tra le più interessanti della storia della Chiesa, fatta oggetto di un culto che affonda le radici nelle profondità dell’epoca medievale e negli strati più umili della società. Tuttavia, di una vita tanto ricca di opere come quella di Sant’Antonio Abate, si racconta sempre troppo poco ed è per questo che oggi, nella memoria liturgica a lui dedicata, è importante approfondire la sua testimonianza di fede e quel legame forte che lo unisce anche alla nostra comunità diocesana ed alle sue tradizioni religiose.
La vita Nato a Coma (odierna Qumans) in Egitto circa l’anno 250, Antonio proveniva da una ricca famiglia di agricoltori cristiani; rimasto orfano all’età di 20 anni, fece suo l’ideale evangelico di dare via o suoi beni, dandone metà del ricavato alla sorella ed offrendo la sua parte ai poveri; fatto ciò, per oltre vent’anni si ritirò a vita eremitica nel deserto, dove alternò preghiera, lavoro nei campi e lavoro manuale. Infatti, tempo dopo, quando San Benedetto elaborò la celebre regola “Ora et labora”, si ispirò proprio all’esperienza di questo celebre anacoreta.
L’esempio di vita di Sant’Antonio iniziò ad attirare fedeli che venivano a chiedere a lui consiglio ed aiuto, se non addirittura a richiedere di abbracciare la sua stessa scelta di vita: è considerato l’iniziatore dell’esperienza dei “Padri del deserto”, che cibandosi dello stretto indispensabile, conducevano una vita in solitudine fatta di preghiera, di coltivazione della terra ed allevamento degli animali. Grazie al suo intervento, nel 311, ai cristiani perseguitati in Alessandria d’Egitto viene risparmiata la vita; mentre l’anno successivo si stabilisce definitivamente in una grotta sul Monte Coltzum, presso il Mar Rosso.
La devozione popolare Morto a 106 anni il 17 Gennaio del 356, Sant’Antonio Abate non tardò a trasformarsi in uno dei santi più amati e venerati della Chiesa, sia in Oriente che in Occidente. All’iconografia ufficiale, che lo raffigura barbuto e vestito di saio, sono associati il fuoco, il maiale, la campanella ed il “Tau”, perché nell’XI secolo le sue reliquie furono portate a Motte-Saint-Didier in Francia, dove per accogliere i pellegrini accorsi a venerarle fu fondato un ospedale ed una Confraternita “antoniana”, cui venne accordato il privilegio papale di allevare maiali per uso proprio. I porcellini, resi liberi di circolare, portavano una campanella di riconoscimento, che li rendeva intoccabili (anche per questo motivo il Santo viene invocato come Patrono degli Animali domestici e da stalla): il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, noto poi come “Fuoco di S. Antonio” (a cui successivamente si aggiunse, nel mondo agricolo ed in senso più largo, l’accensione dei “falò di sant’Antonio”, che avevano una funzione purificatrice e propiziatrice). Ancora, nel XIII secolo, manifestando il desiderio di raggiungerne la perfezione, Sant’Antonio di Padova scelse il suo nome da Francescano ispirandosi a Sant’Antonio Abate: per distinguere questi due Santi, in Italia meridionale si iniziò ad identificare Sant’Antonio Abate come “Sant’Antuono”.
Il culto antoniano in Alife-Caiazzo Numerosissime sono le tracce del culto a Sant’Antonio Abate presenti nel territorio diocesano di Alife-Caiazzo: si va anzitutto dalle immagini pittoriche e scultoree di scuola napoletana presenti a Caiazzo e Formicola, per poi risalire verso Piedimonte Matese. Nel capoluogo matesino infatti, nel gennaio 2009, è rinata al culto la Cappella del Santo alle porte della città (dove nel frattempo era sopravvissuta e perdura a tutt’oggi la pratica della Benedizione degli Animali) mentre presso la Basilica di Santa Maria Maggiore fa bella mostra di sé una tavola cinquecentesca, attribuita a Stefano Sparano, che raffigura il Santo con la Madonna in trono e San Giovanni evangelista. Sempre a Piedimonte dopo i recentissimi restauri della chiesa di San Rocco, brilla un riscoperto affresco del XVI secolo che ritrae Sant’Antuono insieme alla Madonna con Bambino ed a San Donato. Tuttavia, le testimonianze più preziose restano i meravigliosi brani di affresco presenti nella Sagrestia della Cattedrale di Alife risalenti al XV secolo e raffiguranti il Santo percosso dai diavoli (se ne parlerà sabato 18 gennaio alle 16.00 in un convegno a cura dell’Archeoclub d’Italia sezione di Alife in Cattedrale), e soprattutto la Cappella di Sant’Antonio Abate attigua alla Chiesa parrocchiale di Sant’Angelo d’Alife, unica per la completezza del ciclo pittorico del Quattrocento narrante la vita del Santo e della Madonna, che le hanno valso la proclamazione a Monumento nazionale nel 1953.

