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1 maggio, Giubileo dei lavoratori. Occasione per sognare e agire affinché il lavoro torni ad essere “buono”

Emiliano Manfredonia, presidente Nazionale ACLI fa il punto della situazione sul lavoro e l'urgenza di farne un ascensore sociale

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Emiliano Manfredonia (*) Speranza e lavoro, oggi, sembrano termini inconciliabili. Da un lato vi è la speranza, quasi una vana utopia, di un’occupazione quanto più estesa, tutelata, stabile, dignitosa. Dall’altro, purtroppo, vi è il mondo del lavoro che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi decenni e che, nonostante gli squilli di tromba che hanno annunciato i recenti dati di Istat sulla disoccupazione più bassa di sempre, si caratterizza sempre più come ristretto, fragile, precario e povero. Ma è proprio in questa apparente incomunicabilità che s’inserisce il Giubileo della speranza. Ed è proprio qui che non possiamo non ripetere quel che ha detto Papa Francesco durante l’ultima edizione del Labordì, organizzato dalle Acli di Roma: “il cuore umano sa sperare” e il “lavoro che non aliena, ma libera, comincia dal cuore”.

Sperare non significa chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Il lavoro in Italia, lo abbiamo detto, è sempre più fragile.

Emiliano Manfredonia, Presidente ACLI (foto ACLI)

Nei primi due mesi del 2025, abbiamo già dovuto ascoltare per 101 volte la notizia di un uomo o una donna che, recatosi al lavoro, non ha più fatto ritorno a casa. E ancora, la disoccupazione diminuisce perché abbiamo di fronte un mondo di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non sono inseriti in un percorso di formazione. Sono i famosi ‘neet’, giovani spesso disillusi o disincentivati che neppure cercano un impiego, e che in Italia superano la quota del 16%, ben oltre la media europea dell’11,2%. Storie di vita che, come Acli, conosciamo sin troppo bene. Così come sappiamo quanto ancora sia evidente la disparità sul lavoro tra uomini e donne: lo abbiamo certificato nello studio Lavorare Dispari, realizzato dal Coordinamento nazionale Donne. Allo stesso tempo, vi è anche la questione del lavoro giovanile, il più precario di tutti, mal pagato se non, addirittura, gratuito. Ne è la dimostrazione la campagna “Poi vediamo”, lanciata dai giovani delle Acli, che raccoglie migliaia di testimonianze dirette di chi vive quotidianamente nel limbo dell’irregolarità.

Un quadro a tinte fosche, reso ancor più drammatico dalla situazione internazionale che stiamo vivendo. Dal ritorno della guerra alle porte dell’Europa si è accompagnato la guerra dei dazi, che minano l’andamento di un’economia sempre più finanziaria e sempre meno reale, esposta alla speculazione e ai piaceri di singoli individui.

Si pensi soltanto a un’espressione che ricorre spesso negli ultimi giorni: “le borse hanno bruciato miliardi di euro”. In realtà, quei miliardi sono semplicemente passati di mano, perché nei mercati finanziari c’è chi perde e c’è chi vince. E se la corsa al miglior prezzo è un gioco per chi si arricchisce, ciò non vale per chi non trae alcun beneficio da questa gara impazzita.

L’inflazione, la carenza di materiali e l’impennata dei prezzi dell’energia colpiscono direttamente i lavoratori e le lavoratrici, tanto nelle condizioni lavorative, quanto negli stipendi. Per questo, non possiamo che unire la questione del lavoro e la questione della pace: non lo diciamo noi ma, ancora una volta, Papa Francesco, che ci ha chiamato a essere artigiani di pace. Non la mano invisibile del mercato, bensì “la nostra mano visibile” deve “completare l’opera di concreazione di una società equa e solidale”, hanno scritto i vescovi italiani in vista del Primo Maggio.

Il Giubileo della speranza, allora, diventa l’occasione per sognare e agire. Il lavoro deve tornare ad essere “buono”, ha bisogno di ricongiungersi con la propria dimensione umana: servono retribuzioni che garantiscano una vita dignitosa, orari che permettano di coniugare il tempo di cura e il tempo del lavoro, tutele e sicurezze, un accesso per i più giovani e formazione gratuita e continua. Un impegno su più fronti, che le Acli portano avanti riprendendo i principi di eguaglianza, mutualità e redistribuzione, tutelati dalla Costituzione per fare nuovamente del lavoro un ascensore sociale tutto questo sarebbe la base della nostra democrazia. Perché un lavoro “buono” porta ad una democrazia “buona” dove la realizzazione di sé porta a contribuire all’edificazione di una società più giusta e a relazioni umane più fraterne. Inoltre, come ha riconosciuto il Pontefice, un lavoro “buono” ci rende “operatori di pace”.

Un lavoro dignitoso è imprescindibile per costruire la pace e il Giubileo deve spingerci a guardare oltre, verso quella luce nel buio che è, appunto, la Speranza con la “s” maiuscola.

*Presidente nazionale ACLI

Fonte SIR

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