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“Vi lascio la pace, vi do la mia pace”. Commento al Vangelo sesta domenica di Pasqua

Commento al Vangelo nella sesta domenica di Pasqua - Anno C

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di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)

VI domenica di Pasqua – Anno C
At 15,1-2.22-29; Sal 66; Ap 21,10-14.22-23; Gv 14, 23-29

Gesù non ha solo chiesto ai discepoli di amarsi gli uni gli altri: egli ha anche chiesto di essere amato,ponendo l’amore che il discepolo ha per Lui come condizione perché possa irrompere nell’uomo stesso la novità più sorprendente che si possa immaginare, vale a dire la presenza di Dio non accanto all’uomo, ma dentro di lui! Il Quarto evangelo – che era iniziato con la solenne affermazione che Gesù è la Parola (cf. Gv 1,1ss) – arriva a dire che chi custodisce la Parola di Gesù diventa “luogo” di Dio! È possibile entrare in una circolarità di amore in cui si ama il Cristo e si conservano le sue parole, diventandone “scrigno” e “tesoro”.

Arcabas (1926-2018): “Cristo” (1989, particolare della tavola delle Nozze di Cana, Santuario di N.D. de La Salette, Francia)

Tutto questo permette al Padre di riconoscere nel discepolo, “innamorato” di Cristo e custode della sua Parola, il volto del Figlio amato! Il Padre ed il Figlio desiderano essere abitatori di quel cuore, ma chi opera tutto questo – chi, cioè, realizza questo desiderio del Padre e del Figlio – è lo Spirito, il Soccorritore, il quale, poiché difende i diritti di Dio nel cuore del credente, lo fa ricordando Gesù ai discepoli! Non si tratta tanto di ricordare dei contenuti, un messaggio, delle osservanze da compiere: qui si tratta di tenere presente una persona, Gesù, con tutto ciò che ha detto e fatto. Nell’evangelo di Luca il tema è ricorrente e anche gli angeli al sepolcro chiedono alle donne – se vogliono comprendere la tomba vuota – di ricordarsi delle parole di Gesù (cf. Lc 24,6-8): e le donne potranno andare ad annunziare la grande notizia agli apostoli proprio perché si ricordarono (cf. Lc 24,8). Il ricordarsi di Gesù, opera dello Spirito, rende viva la sua Parola e rende palese all’intimo dell’uomo di essere abitato da Dio.

Qui si giunge alla pienezza di rivelazione e di realizzazione in Cristo di quanto già la Prima Alleanza aveva riconosciuto come la grande meta della vita del credente. Lo Shemà Israel ha esattamente questa dinamica: dall’ascolto la conoscenza, l’adesione e, finalmente, l’amore. Come dicevano i rabbini di Israele, lo Shemà provoca nei credenti la Shekinà, cioè la presenza del Signore! Il Salmo 132 dice: «Non concederò sonno ai miei occhi né riposo alle mie palpebre, finché non avrò trovato una dimora per il Signore», ma la tradizione sinagogale amava tradurre, interpretando questo versetto in modo straordinario, «Non concederò sonno ai miei occhi… finché io non divenga un luogo per la Shekinà del Signore». Già Israele aveva questa attesa e Gesù ne è il compimento! E il discepolo di Gesù è chiamato a vivere di questo compimento: egli, allora, è chiamato a non fondare la propria vita su di sé, ma su Dio che abita il suo cuore!

In tal modo, diviene possibile gustare la pace, che è il biblico shalom, unificazione del volere e del sentire, unificazione del pensiero e dei gesti, unificazione di sé con sé stessi, unità con Dio e con il creato… lo shalom è armonia, è pace su scala totale: è, in fondo, l’essere pienamente se stessi nell’amore e nella libertà, realizzando l’uomo che Dio ha “sognato” nell’in-principio! Una tale pace può essere solo dono dall’alto, dono di Dio. Nel Quarto evangelo la pace (come anche la gioia: cf. Gv 15,11 e 17,13) può essere solo quella di Gesù: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace»!
Questa pace è il limpido prodotto della presenza di Dio nella vita concreta dell’uomo! Dio genera nell’uomo la pace, liberandolo dalla paura, che costituisce la grande nemica della pace, perché è la grande nemica dell’amore e solo l’amore può vincerla (cf. 1Gv 4,18: «Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore»).

 

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