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"Agli uomini di buona volontà". Sono trascorsi cinquant'anni

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Anche a loro si rivolse Giovanni XXIII con la sua ultima enciclica, la “Pacem in Terris”, firmata giusto cinquant’anni fa. Ci sono, nel testo, i diritti e i doveri, l’affermazione della realtà di un “ordine morale”, cui necessariamente far riferimento. E c’è un’incalzante lettura dei segni dei tempi. Una proposta straordinariamente realista

“Nonché a tutti gli uomini di buona volontà”: è in questa aggiunta l’ultima forse delle piccole – grandi rivoluzioni di Giovanni XXIII. La “Pacem in Terris”, dove compare per la prima volta questa formula è l’ultima sua enciclica, firmata l’11 aprile di cinquant’anni fa, ormai alla fine di un pontificato di serena innovazione, a cavaliere tra le sessioni del Concilio.
Questo indirizzo “a tutti gli uomini di buona volontà” traduce proprio, sulle frontiere della storia e della politica mondiale, la novità del Concilio, il suo messaggio di “gaudium et spes” a tutti gli uomini, a tutto il mondo. Un messaggio positivo ma anche realistico. Non dimentichiamo infatti che, in questa costituzione conciliare, che certamente riprende lo slancio dell’enciclica, l’indicazione, che è un appello evocativo, alla gioia e alla speranza (“gaudium et spes”, appunto) è accompagnato dalla consapevolezza delle “tristezze e angosce” (“luctus et angor”). Consapevolezza realistica, tuttavia, che è però indirizzata, aperta alla fiducia e soprattutto all’operosità.
Che è poi anche il segreto, l’indirizzo della “Pacem in Terris”. Non una pace qualunque, un richiamo a un pacifismo propagandistico, perché “la pace rimane solo suono di parole, se non è fondata su quell’ordine che il presente documento ha tracciato con fiduciosa speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà”.
È dunque un percorso realistico ed esigente, ma aperto e fiducioso, quello che Giovanni XXIII propone al mondo della guerra fredda e della crisi dei missili a Cuba, al mondo dell’equilibrio del terrore nucleare, delle contrapposizioni ideologiche, delle lotte di liberazione.
Ci sono, nel testo dell’enciclica, i diritti e i doveri, l’affermazione della realtà di un “ordine morale”, cui necessariamente dovere fare riferimento. E c’è un’incalzante lettura dei segni dei tempi. Sono i tre grandi fenomeni del secondo dopoguerra, “l’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici”, l’ingresso della donna nella vita pubblica (e giustamente annota “più accentuatamente forse nei popoli di civiltà cristiana”), la prospettiva che non ci siano più “popoli dominatori e popoli dominati”, che la Chiesa apprezza e condivide, per cui s’impegna.
Il Papa sintonizza la Chiesa sulla storia accelerata e definisce la pace un obiettivo realistico, anche se un “compito immenso”. È una visione progressista, nel senso che riprenderà Paolo VI in un’altra enciclica fondamentale, la “Populorum Progressio”, in cui affermerà che lo sviluppo è il nuovo nome della pace.
Sono passati cinquant’anni dall’11 aprile 1963 e Papa Francesco, che di Giovanni ha certamente taluni dei tratti che più sono radicati nella nostra memoria collettiva, ha richiamato questa prima enciclica che coraggiosamente disegna un nuovo orizzonte mondiale, invitando a promuovere instancabilmente pace e riconciliazione “ad ogni livello”.
È un orizzonte di progresso e di speranza, “fiduciosa speranza”, come scrisse Giovanni e Francesco ribadisce con convinzione in ogni suo gesto.

Francesco Bonini, editorialista Sir

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