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Nessun cammino è “da soli”. La “relazione” tra Gesù e i discepoli di Emmaus nel vangelo di domenica 26 aprile 2020

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Di Padre Fabrizio Cristarella Orestano
Comunità Monastica di Ruviano

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Cena in Emmaus, Caravaggio, olio su tela, 1601-1602, National Gallery Londra

III Domenica di Pasqua
At 2, 14.22-33; Sl 15; 1Pt 1, 17-21; Lc 24, 13-35

Nei testi biblici di questa terza domenica di Pasqua c’è un tema che, più o meno sottilmente, attraversa tutti e tre le letture: il tema del cammino.

Nel testo di Atti troviamo Pietro che, nel giorno di Pentecoste, sta annunziando il kerygma della Pasqua di Gesù e cita il Salmo 15 (14) in cui il Signore muta il sentiero di morte dell’uomo in un cammino di vita; nel testo della Prima lettera di Pietro, l’Autore descrive la vita del cristiano, il suo stare nella storia con una delle categorie che sempre più va assunta come una di quelle che meglio e più dicono la verità del modo di presenza cristiana nel mondo: la “paroikía”, termine che possiamo tradurre con “residente in città non sua”, con situazione di colui “che dimora in terra straniera”, come “straniero senza diritti” (dal verbo greco “paroikízo” che nella forma passiva significa “abitare accanto”, “stabilirsi vicino”). Il cristiano, in tal senso, è colui che cammina in terra straniera perché, come dice la Lettera a Diogneto: “I cristiani vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera (Lett. a Diogneto V). Proprio l’immagine del cristiano come un pellegrino, un viandante suggerì alla Chiesa il nome delle “parrocchie”, che poi, incredibilmente, sono diventate i luoghi e le strutture che più stabili non si può!

Il tema del cammino diviene poi, naturalmente, eminentemente centrale nel racconto celeberrimo e straordinario, che Luca ci consegna, dei due discepoli di Emmaus che è l’Evangelo di questa domenica. Anche il loro è un cammino, un cammino che ha due direzioni: prima è un cammino di “de-vocazione”, di abbandono della Comunità, di fuga dal dolore e dal non-senso, un cammino che è fuga da parole che sono state loro annunziate ma che non corrispondono ai loro schemi e alle loro logiche di buon-senso (apparizioni di angeli, “egli è vivo”): un morto resta un morto e il mondo di Dio è lontano e separato da questo in cui i potenti la vincono sempre e che solo un messia forte e “armato” potrebbe far vacillare; un messia crocefisso non può essere un messia (“noi speravamo che lui avrebbe liberato Israele”) … un cammino di de-vocazione che ha il sapore dell’amarezza, del sentirsi traditi da una serie di preomesse e speranze deludenti e deluse … un cammino di de-vocazione di cui non hanno il coraggio di cercare le vere ragioni non fuori di sé ma dentro di sé, dentro le loro debolezze, presunzioni, incapacità di vere relazioni, di vero ascolto, di capacità di andare oltre i loro ristretti orizzonti di lettura del reale … un cammino di de-vocazione che però si incrocia con il cammino del Risorto che è andato a cercarli lì dove stavano smarrendo tutto: fede, speranza, fratelli (credo che ogni de-vocazione sia una perdita di queste tre cose; si dice di no ad un sogno di Dio e si crede di aprirsi alla propria vita e libertà e ci si trova tra le mani una vita incatenata nella miseria della perdita della fede, della speranza e nella solitudine della perdita dei fratelli! Il Signore ce ne guardi!) … e così ecco la seconda direzione (non perché tornano indietro; poi lo faranno davvero, ma alla fine): il loro camminare con il viandante sconosciuto diviene un cammino diverso perché diviene un luogo di relazione ed un luogo in cui risuona la parola della Scrittura; una parola che Gesù, per loro straniero e pellegrino, pronunzia e spezza perché diventi per loro Parola che salva, che rianima, che accende quei cuori smorti; il fuoco della Scrittura, divenuta Parola di Dio, li rifà capaci di comunicare (loro che all’inizio si buttavano parole l’un contro l’altro; così il verbo greco che Luca usa: “antibállein”), li rifà capaci di entrare in relazione con l’altro, con il diverso tanto che, ad un certo momento insistono perché quel Gesù, prima trattato come uno sprovveduto disinformato, resti con loro al tramonto del sole …

I due discepoli delusi ed ancora fuggiaschi trovano il coraggio di una relazione e trovano la forza della speranza smarrita; soprattutto ritrovano la forza di tornare alla Comunità che avevano abbandonato. In fondo, come Tommaso nel racconto giovanneo (cfrGv 20, 24-29), essi hanno un duplice peccato: non hanno creduto alla testimonianza delle donne, hanno abbandonato la Chiesa, la fraternità.

Il testo, così, tra le altre cose, ci consegna una verità straordinaria: nella Chiesa si resta solo a causa del Risorto, solo Lui rende possibile il restare nella Chiesa, un restare che diviene esperienza di risurrezione perché è nella Chiesa che le nostre esperienze vive di Lui Risorto ricevono conferma e forza (“davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!”), è nella Chiesa che si partecipa alla vita del Risorto perché lì riceviamo i doni del Risorto stesso: è lì, infatti che Lui spezza il pane della vita, è lì che la Scrittura “spiegata” diviene intellegibile tanto da rivelarsi Parola di Dio che in essa era contenuta, è nella Chiesa che si riceve la remissione dei peccati, è nella Chiesa che si vive la fraternità che rende, in tutta la storia, presente il Risorto! E’ la Chiesa che, nonostante i suoi limiti, peccati e fragilità è contemporaneamente il Corpo di Cristo ed è il luogo della concretezza “carnale” della fraternità; una concretezza che ci deve gridare di continuo la logica dell’Incarnazione, liberandoci da ogni stolta e depauperante tentazione di “spiritualismi” disincarnati e molto disimpegnati dallo spessore della storia; è nella Chiesa che noi possiamo vivere la vera conoscenza di Cristo Gesù che non è una conoscenza meramente teologica, concettuale ma è una conoscenza “reale”, carnale, vitale, sperimentale.

Se riflettiamo bene il racconto di Emmaus ci dice dove si incontra la presenza del Risorto: nell’altro uomo (il pellegrino straniero e viandante come me!) e nella Parola contenuta nella Scrittura. Sono queste due realtà che conducono a riconoscere quel pane spezzato in cui è narrata a pieno la storia della vita spezzata e donata di Gesù di Nazareth, una vita spezzata e donata che è vita per sempre, è vita del Risorto, perché un amore come il suo non può restare nelle maglie soffocanti della morte.

Quando il Risorto, spezzato il pane, scompare alla loro vista, essi, che lo avevano riconosciuto, sono condotti a tornare a se stessi, al loro cuore, a riconoscere come Gesù glielo aveva acceso di un fuoco prima sconosciuto; così possono riprendere le vie di quella loro storia smarrita ed abbandonata, possono tornare indietro riprendendo le strade di quella fraternità che avevano tradito ed abbandonato.

Se si riconosce il volto del Risorto poi si riesce a riconoscere anche la verità del proprio volto e le dimensioni autentiche della propria storia e del proprio posto nel mondo.

Si deve saper dire per davvero Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino … dirlo davvero significa volere che Lui davvero resti sapendo che quel restare è richiesta di farsi coinvolgere in quello spezzare il pane che chiede di rischiare la vita offrendola, donandola … In questo tempo così segnato da ombre di morte, da ombre di un tramonto che ha il sapore della perdita definitiva, del blocco della vita, abbiamo bisogno di questo Signore che resta e dia altra direzione ai nostri cammini, ai nostri passi perduti dietro al nulla, dietro ai crolli di fede, di speranza, di vicinanza con dei fratelli concreti e per questo “scomodi”.

Lui entra per rimanere con noi e, da quel rimanere, scaturisce la possibilità reale del nostro rimanere in Lui e con i fratelli.

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