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Commento al Vangelo di domenica 7 febbraio. La giornata di Gesù, un modello per tutti

Commento al Vangelo della V domenica del Tempo ordinario Anno B

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Di padre Fabrizio Cristarella Orestano
Comunità Monastica di Ruviano

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“Guarigione della suocera di Pietro”. Monastero Visoki Decani (Kosovo). Chiesa del Pantokrator (1335-1350 ca.)

V domenica del Tempo ordinario
Gb 7,1-4.6-7; Sal 146; 1Cor 9,16-19.22-23; Mc 1,29-39

«Tutto io faccio per l’Evangelo!».

Così si conclude la pagina della Prima lettera ai Cristiani di Corinto che ascoltiamo in questa liturgia; un’espressione questa che ci indica quanto il discepolo diventi come Cristo se prende sul serio il suo rapporto con Gesù stesso e con la Parola che Lui è venuto a consegnarci.
Paolo osa affermare di sé che si è fatto «tutto a tutti» e aggiunge: «per salvare ad ogni costo qualcuno»; un’aggiunta importante questa perché ci mette bene in chiaro che la logica dell’annunzio dell’Evangelo non ha parametri commerciali… c’è infatti una sproporzione tra quel «tutto a tutti» e quel «qualcuno»… il massimo “costo” non deve volere necessariamente un massimo “rendimento”; quello che conta è dare tutto ; come sempre: neanche un poco di meno.

La gratuità di cui parla Paolo infatti non significa solo che Paolo non pretende un guadagno dall’impegno per il Regno, ma che non misura neanche la sua dedizione con il successo personale o della “causa”. È l’Evangelo che ha una sua forza che si manifesta quando è annunziato, ma l’Evangelo ha i suoi ritmi, le sue vie, i suoi tempi… è necessario affidarsi all’Evangelo e mai credere che l’Evangelo sia affidato a noi.

Il tratto di Marco che oggi ci è proposto fa scorrere dinanzi ai nostri occhi una giornata tipica di Gesù: è un sabato (è lo stesso sabato dell’episodio dell’indemoniato!) e Gesù ed i suoi lo impiegano per l’Evangelo… è una giornata di “miracoli”… stiamo però bene attenti: Gesù non si presenta come un taumaturgo, un guaritore, un esorcista di successo; Gesù compie quei gesti liberatori dalla malattia, dal male, da ogni alienazione (cosa è in fondo la possessione se non un essere alienati da sé e consegnati al male che “possiede”?) per mostrare che le sue parole sono vere e che è sorto un tempo nuovo, un tempo in cui inizia la vittoria su ciò che avvilisce e nullifica l’uomo; una vittoria su quella caducità senza vie d’uscita che pare l’orizzonte di Giobbe nel testo della prima lettura che oggi si ascolta.

La giornata di Gesù che Marco descrive è carica contemporaneamente di narrazione e di valenze simboliche: c’è, per esempio, una alternanza di luoghi in cui Gesù opera: la sinagoga (nel passo precedente Gesù vi aveva compiuto l’esorcismo), la casa, un luogo all’aperto dinanzi a tutti gli abitanti della città, infine c’è il dirigersi altrove; insomma, pare che Marco voglia dire che l’azione di salvezza di Gesù è capace di penetrare tutti gli ambiti della nostra vita: dal luogo del culto all’intimità della casa , fino alla vita con le sue più ampie relazioni; in tutti questi luoghi si annida ciò che toglie all’uomo l’umanità.

Gesù cura. Il verbo greco che Marco usa è therapèuo che significa “curare”, ma anche “venerare”, “rispettare”, “onorare”; Gesù cura donando dignità; non è un guaritore o un mago, è un uomo che rende uomini; è Dio che si accosta all’uomo che si è avvolto nei lacci della morte e lo prende per mano per farlo alzare (è il gesto che Gesù compie per la suocera di Pietro; gesto che culmina con il verbo eghéiro che il verbo della risurrezione: «la prese per mano e la fece risorgere»). Gesù cura i mali profondi dell’uomo di cui i mali esteriori sono solo un segno; guai a fermarsi alle guarigioni materiali.

Gesù rifugge chi si ferma all’esteriorità di quei gesti; rifugge chi cerca Lui perché è un guaritore; a Gesù interessa annunciare la parola del Padre, l’Evangelo che permette all’uomo di trovare la sua identità nella piena libertà: «per questo sono venuto». Mi sembra chiara la scala di priorità che Gesù ha compreso per sé e che l’Evangelo oggi ci consegna: l’annunzio dell’Evangelo è la sua grande priorità che prende forza dalla preghiera prolungata di quell’alba, nel dialogo con Colui che l’ha inviato, nel dialogo con Colui di cui annunzia l’Evangelo. Gesù non si lascia schiacciare dalle “urgenze” (vere o presunte!)…  con quella levata quando ancora è notte (in greco Marco scrive, alla lettera, “al mattino di notte presto”) dichiara il suo bisogno di quel silenzio solitario ed orante. La sua azione prolungata di cura degli uomini “si versa” nel riposo del corpo e nel riposo orante di quell’alba silenziosa.

Dinanzi a questo racconto di Marco, come Chiesa, dobbiamo farci oggi molte domande sugli equilibri della nostra azione e presenza nella storia e nella compagnia degli uomini.
A volte ci si carica di “urgenze” che “urgenze” non sono, e si lascia indietro la sola vera “urgenza” che poi è quella che ci dà ragion d’essere e che non ci confonde con gli altri pur benemeriti ed ammirevoli enti benefici o sociali. Dobbiamo convincerci che l’eresia strisciante e subdola che oggi pervade tanti ambiti di Chiesa è lo strapotere del “fare” che mortifica l’unica cosa per cui Gesù ci ha posto, come Chiesa, nel mondo: «Andate ed annunziate l’Evangelo a tutta le creature» (Mc 16,15); un annunzio che ogni giorno esige spazi di silenzio e di ascolto di Colui di cui portiamo la Parola, spazi di fraternità in cui condividere la vita e vivere le esigenze radicali dell’Evangelo stesso… eventualmente da questo nascerà anche l’azione… dico “eventualmente” non perché l’azione sia una cosa eludibile o non necessaria (le opere non ci salvano ma dicono che siamo dei salvati!), ma perché un’azione che non abbia radici profonde nell’Evangelo, accolto e fatto scendere nel profondo delle scelte e delle intenzioni della vita, diventa un’azione filantropica, certo benemerita, ma spesso relegata in tempi o stagioni della vita e certo non eloquente dell’Evangelo.

Insomma non possiamo essere una Chiesa del “fare” mille e mille cose scambiate per “urgenze” e relegare l’annunzio dell’Evangelo in “scomparti” scontati, magari quelli delle “preparazioni” (!?) ai Sacramenti, e la preghiera tra le cose che bene o male “bisogna fare” (cosa questa che nessuno direbbe apertamente, ma che di fatto sottilmente tantissimi pensano). «Tutto io faccio per l’Evangelo!». Chiaramente il primo “fare” è il lasciarsi plasmare dall’Evangelo per annunziare l’Evangelo; Giovanni dirà che «l’opera di Dio è che voi crediate in colui che egli ha mandato» (Gv 6,29), dunque è l’annunzio.

Dimenticare questo, o eluderlo, è tradimento dell’Evangelo ed è perdita di identità ecclesiale. Qui c’è da fare discorsi seri sull’identità cristiana, non contro gli altri e contro le loro identità, ma a partire da quanto noi tradiamo questa identità diventando quello che non dobbiamo essere e livellando le nostre azioni, i nostri pensieri, le nostre priorità a quelli del mondo …
La giornata tipo di Gesù, che Marco narra, vuole essere allora icona della vita del discepolo di Cristo, della sua Chiesa; notiamo che questa sezione e chiusa in una “inclusione ”: inizia con Gesù che va nella Sinagoga a insegnare (Mc 1,21) e termina con Gesù che proclama di dover annunziare (il verbo kerýssein v.38) e che di fatto percorre i villaggi della Galilea ancora annunziando (di nuovo il verbo kerýssein v.39) e cacciando i demoni. Proprio così: Marco conclude mostrando come l’annunzio dell’Evangelo porti con sé la liberazione dal male che abita l’uomo. Solo annunziando l’Evangelo la Chiesa compirà la sola azione di cui l’uomo ha bisogno: la liberazione da ciò che lo nullifica, avvilisce, disumanizza.

L’Evangelo è opera di umanizzazione.

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