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Commento al Vangelo di domenica 27 giugno. Gesù e il coraggio di rischiare per l’uomo

Commento al Vangelo di domenica 27 giugno, XIII domenica del Tempo ordinario - anno B

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Di Padre Fabrizio Cristarella Orestano
Comunità Monastica di Ruviano Clicca per visitare il sito 

XIII domenica del Tempo ordinario – anno B
Sap 1, 13-15;2, 23-24; Sal 29; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5, 21-43

Continua la serie di “miracoli” con cui Marco conferma con gli atti le parole che Gesù ha pronunziato con autorità. Anche qui, come nel passo precedente della tempesta sedata che si leggeva la scorsa domenica, c’è un passaggio dalla potenza di Gesù che vince ogni impurità alla necessità della fede. Tutto ciò che è per la vita, per la salvezza, è possibile a Dio…è possibile a Gesù! Questa possibilità, però, non è dispiegata come una potenza sovrumana che schiaccia le nostre impotenze, che le umilia umiliandoci; dobbiamo invece dire che la potenza d’amore che salva che è in Gesù diventa accessibile all’uomo certamente attraverso la via della fede ma anche e soprattutto perché Gesù sceglie di diventare debole addossandosi le nostre impurità.

Iliya Efimovic Repin (1844 – 1930): “Risurrezione della figlia di Giairo. Olio su tela, San Pietroburgo, Museo di Stato Russo

Occorre dire, infatti, quanto Gesù dice dopo il tocco della donna malata di emorragie («Ho sentito una potenza uscire da me») non va intesa come la potenza taumaturgica che Gesù avverte operante; va intesa invece come un’affermazione di una sopravvenuta debolezza: una potenza che esce conduce alla impotenza e debolezza; la dýnamis che esce da Lui sta a significare che l’Agnello si sta caricando delle nostre infermità, debolezze, impurità; Lui che è il forte, il puro, il santo “perde potenza” perché condivide sempre più la debolezza dell’uomo e questo giungerà al parossismo della croce in cui, come cantiamo al Venerdì Santo. Colui che è il Dio Santo, si fa impuro e maledetto, colui che è il Dio Forte si fa impotente e inchiodato ad un legno, colui che il Dio Immortale entra addirittura nell’orrore della morte, morto come gli altri morti, cadavere freddo e vuoto come sarà ciascuno di noi!

A questa dinamica che Dio scegli si accede solo per mezzo della fede; questo è quello che dà accesso e a Giairo e alla donna emorroissa a quella potenza di vita e di salvezza che è in Gesù, un accesso che “fa uscire una potenza da Gesù” caricandolo delle nostre fragilità! Certo la fede è un rischio…e non solo perché è un fidarsi dell’invisibile e di ciò che non è misurabile con i nostri soliti metri, ma perché espone il credente a prendere una posizione, a fare una scelta di campo, ad essere guardato con sospetto da chi è pieno di “buon senso” e di “buona educazione”. Ricordiamo, infatti che Gesù è totalmente privo di buon senso; il Crocefisso è un folle perché è un Dio che si fa debole (nella sua prima lettera ai Cristiani di Corinto Paolo dirà che la croce è scandalo e stoltezza; cfr. 1Cor 1,18-25), è uno che «non ritenne un tesoro da rapinare la sua uguaglianza con Dio, ma svuotò se stesso (…) facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (cfr. Fil 2,6-8). Il racconto di Marco di questa domenica ci dice che non si dovrà aspettare la croce per questo “svuotamento” iniziato nell’incarnazione e perseguito con dedizione in ogni giorno della vita di Gesù.

Chi segue Gesù sa che partecipa di quella sua stoltezza incomprensibile per il mondo e per il suo dannato “buon senso”! La donna malata di emorragie, infatti, ha dovuto sopportare su di sé gli sguardi di disprezzo e di derisione dei presenti; ha dovuto e voluto svelare se stessa difronte alla domanda di Gesù su chi l’avesse toccato; l’ha fatto dinanzi ad una folla ostile a lei che aveva avuto attenzione da quel Rabbi famoso… tra tutta una folla che toccava e spintonava Gesù in verità, però, solo lei lo aveva toccato con la fede; gli altri forse l’avevano toccato con l’entusiasmo, con la curiosità, con il desiderio d’avere dei benefici; di certo, di fatto, lei sola provocò la dýnamis di salvezza che usciva da Gesù perché lei aveva una certezza scevra da ogni dubbio: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello sarò guarita». Ha dovuto affrontare gli sguardi di giudizio dei benpensanti che, certamente, l’hanno condannata per il suo gesto “disobbediente” a tutte le leggi di purità contenute nella Scrittura: una donna come lei, con quelle emorragie, non solo era impura, ma faceva contrarre impurità a chiunque la toccava. La donna, dunque, ha fatto contrarre impurità a Gesù… ma è quello che Gesù voleva da quando aveva scelto, nel suo primo giorno “pubblico”, di mettersi in quella fila di peccatori sulla riva del Giordano; fin da allora Gesù s’era messo dalla parte degli impuri diventando – come dice il Battista nel Quarto Evangelo – “l’agnello di Dio che porta su di sé il peccato del mondo” (cfr. Gv 1,29); da allora la dýnamis cominciò a diminuire sempre più in Gesù che si fece sempre più debole per condividere e salvare la nostra debolezza.

Tra gli sguardi ostili però si delinea su questa donna un altro sguardo, quello di Gesù che le annunzia con amore un evangelo: la chiama “figlia”, le rivela la potenza della sua fede e le dona pace e salvezza. Questa piccola donna ritorna alla vita e alla vita dignitosa che ogni essere umano dovrebbe avere… torna nell’anonimato e nel silenzi ma ormai la sua mano ha toccato il “fuoco” di Dio non solo perché ha toccato il corpo di Gesù ma perché si è lasciata toccare, “bruciare” dalla fede in un Dio umile e fragile che ci salva, come scriverà Bohnöffer, non in virtù della sua potenza ma in virtù della sua impotenza! Marco ha incastonato il racconto della donna emorroissa all’interno di un racconto più ampio: quello della figlia di Giairo. Anche Giairo ha dovuto affrontare gli altri per mostrare e vivere la sua fede, ha dovuto esporsi al ridicolo e all’idea che di lui si fanno gli altri: un povero padre “impazzito” di dolore tanto da sperare pateticamente l’impossibile.

I saggi amici di Giairo, infatti, gli dicono parole di buon senso, parole di buona educazione: «Non disturbare più il Maestro: tua figlia è morta!». Il buon senso comune dice che “alla morte non c’è rimedio”…  ecco tutto! Però, dove c’è Gesù, noi dovremmo saperlo, questa frase non ha più senso. Il problema è che per tanti cristiani continua ad avere senso perché, in fondo, per loro Gesù è un “sapiente”, un “maestro”, un uomo buono e caritatevole, uno che insegna cose buone, un maestro di sana morale… basta! Ma Gesù non è questo, o per lo meno non è affatto solo questo: Gesù è salvatore e non in virtù della sua potenza ma in forza del suo amore che rischia, che prende per mano la morte; se, infatti, nella scena precedente è stata la donna a far contrarre impurità a Gesù con il toccarlo nella sua condizione di impura, qui, nella casa di Giairo, è Gesù stesso che, prendendo per mano la bimba morta, contrae l’impurità che dava il tocco di un cadavere… e ancora una dýnamis uscirà da Lui! Diventa ancora più fragile! Il contatto con la morte non lascia indenne il Signore della vita! È il rischio mortale che Dio ha scelto per essere “con noi”! Insomma Gesù prende su di sé la nostra impurità e anche la nostra suprema impurità che è la morte!

I “saggi” che sono presenti, se hanno benevola compassione per quel “padre impazzito di dolore”, deridono Gesù perché chiama “sonno” la morte. Siamo alle solite: alla morte non c’è rimedio! In questa situazione Gesù chiede, vuole il silenzio e Marco ci conduce “in alto”, ci porta su un “osservatorio altissimo”: la Pasqua di Gesù. E’ da lì che bisogna guardare questa scena perché essa è rivelativa di come la Pasqua di Gesù sia vittoria sulla morte per noi, per le nostre membra fredde di morte come le manine di quella bambina, per le nostre speranze spezzate nel fiore della vita (la ragazzina ha dodici anni!)… Marco usa per questo i due verbi della Risurrezione, quelli che il Nuovo Testamento userà per dire della Risurrezione di Gesù stesso: eghéiro (“alzarsi”) e Anìstemi (“mettersi in piedi”) e ci mostra che Gesù chiama con sé i tre discepoli che saranno testimoni e della gloria della Trasfigurazione e della prostrazione mortale, della sfiguarzione del Getsemani; testimoni di luce e di tenebra, Pietro, Giovanni e Giacomo, sono chiamati ad essere testimoni della sintesi tra i due momenti: si giunge alla vita attraversando l’oscura valle della morte.

Anche per questo straordinario “miracolo” di risurrezione la potenza di Gesù non si manifesta in modo “inumano” ma passando per l’amore costoso di Gesù che assume la nostra debolezza mortale e passando per la fede di quel padre che accoglie in silenzio la parola che Lui gli dice: «Non temere. Continua solo ad avere fede!». Parole di una semplicità disarmante, parole “illogiche” che però dovremmo sentirci risuonare nel profondo in ogni ora di buio, in ogni ora che pare senza sbocchi e vie d’uscita: solo fede! Fede in un Dio affidabile, tanto affidabile che in Gesù si è esposto alla debolezza, all’impurità, alla morte! Come non fidarsi di un Dio così? Ecco la possibilità, ecco la via di accesso alla potenza di amore di Gesù, ecco l’accesso alla sua potenza che salva. Una potenza “debole” perché esposta a pagare il prezzo della condivisione assoluta sia dell’impurità presa su di sé, sia della morte che per Lui sarà addirittura morte di croce!

E lì, sul Golgotha, morte e impurità saranno assieme al massimo grado dell’orrore ma, attraversate dalla forza di quell’amore fino all’estremo, si trasformeranno in vita per il mondo. Mettiamo fede in questa “potenza debole”? Se lo facciamo dobbiamo sapere che intanto il mondo ne riderà.

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