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La peste di Londra: Daniel Defoe e il Journal of the Plague Year

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Ogni epoca ha la sua epidemia; ogni epidemia ha i suoi protagonisti…
Continua il nostro viaggio letterario a cura di Luca Di Lello tra le opere e gli autori che si sono misurati con terribili mali e con la reazione dell’uomo di fronte ad esso.
La rubrica di Clarus “Tutto sotto controllo. Ci siamo già passati”, questa settimana racconta la peste a Londra di Daniel Defoe. Buona lettura

Gli articoli precedenti:
La Ragione contro la peste. De Rerum Natura
La peste di Giustiniano
Boccaccio tra peste e letteratura

A Journal of the Plague Year è forse una di quelle opere che spesso nelle trattazioni dei grandi autori sono rubricabili come “opere minori”. E che, altrettanto spesso, si ritrovano a essere coaguli e sintesi geniali della vastità dei temi affrontati nei romanzi precedenti. Può essere il caso di questo libro del grande scrittore Daniel Defoe. Lo diede alle stampe, infatti, nel 1722. Negli anni della maturità di un mercante, agente segreto, affarista e giornalista ultrasessantenne. Nella vecchiaia di chi aveva già viaggiato in tutta Europa, avviato una fabbrica, condotto una vita rocambolesca tra i successi editoriali e le fughe dai creditori. Ma soprattutto dalla penna che aveva già firmato i capolavori Robinson Crusoe e Moll Flanders. E non finisce qui: aveva fondato la rivista The Review. Ossia il giornalismo cronachistico in senso moderno. E le due cose, vedremo, non sono casuali. Giornalismo e letteratura. Binomio che ritroveremo spesso nella storia di tutta Europa (basti solo pensare a Matilde Serao).

Il romanzo di cui stiamo parlando è la rievocazione storica di un dramma collettivo che l’umanità si trova ad affrontare di volta in volta. Sempre in bilico tra vecchi schemi e modalità nuove. È la tragedia della peste di Londra. L’epidemia che nel 1665 ammazzò 100.000 londinesi. Allora un abitante su cinque. Un’ecatombe.

Ancora una volta il contatto con un animale, il topo. Ancora una volta un contatto commerciale da est, i mercanti olandesi. Ancora una volta un contagio spaventoso. Inarrestabile, disarmante, che appare ineluttabile. Diffusasi tra i poveri in primavera, spinse anche il re Carlo II a trasferirsi con la sua corte in campagna. Erano anni difficili per l’Inghilterra divisa tra la politica assolutistica della monarchia e le pretese dell’aristocrazia nel parlamento, l’odio religioso tra puritani e cattolici, e i violenti anni di Cromwell appena dietro le spalle. Così infatti comincia Defoe:
It was about the beginning of September, 1664, that I, among the rest of my neighbors, heard in ordinary discourse that the plague was returned again in Holland; for it had been very violent there, and particularly at Amsterdam and Rotterdam, in the year 1663, whither, they say, it was brought (some said from Italy, others from the Levant) among some goods which were brought home by their Turkey fleet; others said it was brought from Candia; others, from Cyprus.[1]

La descrizione somiglia a tante altre già esaminate in questa rubrica: il morbo, il propagarsi del contagio, le iniziative istituzionali, l’impotenza di medici e decisori politici: come per esempio quest’ordine che obbliga tutti a denunciarsi alla comparsa dei sintomi:
Notice to be given of the Sickness. The master of every house, as soon as any one in his house complaineth either of botch, or purple, or swelling in any part of his body, or falleth otherwise dangerously sick without apparent cause of some other disease, shall give notice thereof to the examiner of health, within two hours after the said sign shall appear.[2]

Il genere dell’opera è una sorta di ibrido: è un romanzo-inchiesta, ma romanzo storico, ed espresso nella forma diaristica. Il protagonista, un umile sellaio di cui sappiamo solo le iniziali H.F., è immaginario, ma i documenti hanno effettiva valenza storica. Defoe riesce a calarsi nei bassifondi della vita popolare, ottant’anni prima di quando scrive. E col sellaio ci porta in uno spazio-tempo particolare. Nei quartieri poveri di Londra dove il morbo ha seminato, oltre a morte e carestie, anche odi, violenze e diffidenze. Tutto innescato dal timore di essere contagiati. Ci porta in un mondo in cui il pensiero dominante era quello di un castigo di Dio contro i vizi degli uomini, e in particolar modo i ricchi. E siamo in anni in cui il puritanesimo si fa interprete di una richiesta politica di forte repressione dei piaceri della vita. In anni in cui il soprannome del re era “Merrie Monarch”, per indicare il clima sfarzoso ed edonistico della corte. L’avevano per l’appunto chiamata “peste dell’avarizia”. Anche se a morire erano soprattutto i poveri.

Molti anni dopo James Joyce scriverà di questo particolare libro:
Di questa orrenda strage il Defoe dà una narrazione tanto più terrificante perché sobria e mesta. Il sellaio cammina per le strade abbandonate, ascolta le grida d’angoscia, si discosta dai malati, legge gli editti del prefetto. […] discute col barcarolo a Blackwall. si interessa del prezzo del pane, si lagna delle guardie notturne, sale sulla vetta della collina di Greenwich e calcola quante persone si sono rifugiate sulle navi ancorate nel Tamigi, loda, biasima, piange spesso, qualche volta prega.

Joyce poi torna a lodare la chiarezza e la sobrietà della sua scrittura. Una prosa asciutta e secca al netto di una materia così viva, fatta di umanità non plastica, ma tutta carne, sangue e nervi. È il linguaggio della cronaca, della notizia esatta, del giornalismo moderno che nasce. E non è un caso che nasce con lo scrittore inglese che in quel primo Settecento, insieme a Swift, Sterne, Richardson, inaugurerà il romanzo moderno. Se Robinson Crusoe è la storia di un superstite che in un posto sperduto del mondo riesce con l’ingegno e col calcolo a creare un avamposto di civiltà, è probabile che la sua scrittura nasca dall’esigenza di una rappresentazione emblematica dello spirito d’iniziativa e dalla sagace ostinazione nella lotta contro le difficoltà. Fa sponda alla coscienza di una nascente borghesia che dal commercio, dal calcolo accorto e dall’uso disciplinato dell’intelligenza pratica sa moltiplicare i propri guadagni, crescere e quindi pretendere uno spazio di rappresentanza politica. Intraprendenza borghese che non è certo scollegata col Settecento, il secolo dei lumi e della razionalità. Di conseguenza il secolo in cui l’intellettuale, non più maestro di corte, si interessa a tutto ciò che accade nella società: prende parola, comincia a studiare il vivere associato degli uomini, comprende che esiste una possibilità di intervenire per cambiare la realtà delle cose. Sarà per questo il secolo delle idee e della rivoluzione francese. Sarà anche per questo il secolo in cui nasce il giornalismo.

[1] Traduzione: Fu verso l’inizio di settembre 1664 che, tra il resto dei miei vicini, sentii in un discorso ordinario che la peste era tornata di nuovo in Olanda; poiché era stato molto violento lì, e in particolare ad Amsterdam e Rotterdam, nell’anno 1663, dove, si dice, fu portato (alcuni dicono dall’Italia, altri dal Levante) tra alcuni beni che furono portati a casa dalla loro flotta turca; altri dissero che era stato portato da Candia; altri, da Cipro. Non importava da dove venisse; ma tutti concordarono che era tornato di nuovo in Olanda.

[2] Traduzione: Avviso da dare della malattia. Il padrone di ogni casa, non appena qualcuno nella sua casa si lamenta di pasticcio, o porpora, o gonfiore in qualsiasi parte del suo corpo, o si ammala pericolosamente altrimenti senza apparente causa di qualche altra malattia, deve notificarlo all’ esaminatore della salute, entro due ore dalla comparsa del suddetto segno.

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