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Ricchi e poveri. La forbice si allarga

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Dati Bankitalia: si è fermato “l’ascensore sociale”

A margine di uno studio di Bankitalia dove si evidenzia che il patrimonio dei dieci italiani più ricchi è pari a quello dei 3 milioni più poveri (serve a fare richiamo mediatico sullo studio, e infatti così è capitato), c’è un’altra riflessione che s’impone, meno d’impatto ma molto più profonda. L’Ufficio studi della Banca d’Italia – tra i più seri ed autorevoli in assoluto – ha evidenziato quale sia la reale composizione della ricchezza dell’italiano medio nel 2012. Essa è data soprattutto dal patrimonio familiare, cioè dalla trasmissione di beni mobili ed immobili da una generazione all’altra. Difficilmente ci si arricchisce grazie al proprio lavoro, quindi al reddito generato anno dopo anno. È una clamorosa inversione di tendenza rispetto alla seconda metà del Novecento, quando i nostri padri o nonni uscirono dalla guerra in braghe di tela – rattoppate e quelle sì trasmesse da fratello a fratello – e si rimboccarono le maniche costruendo il benessere di oggi. Perché – per quanto possiamo enfatizzare la difficoltà del vivere di questi anni – l’italiano medio vive in una condizione di invidiabile benessere. Basta attraversare a sud il Mediterraneo, per capirlo. Le generazioni precedenti non avevano niente. Fu quasi automatico ricostruire patrimoni familiari inesistenti, o azzerati dalla guerra. La propensione italica al risparmio – leggendaria – ha consentito l’accumulo di notevoli… scorte di grano che ora ci risultano assai comode in un’epoca in cui le possibilità di imitare i nostri padri sono quasi azzerate. Letteralmente, il nostro reddito ci serve per campare. Lo testimonia il crollo della nostra capacità di risparmio, dovuto non tanto ad una maggiore propensione a scialacquare (che comunque esiste), quanto al fatto che i nostri stipendi bastano. Ma non avanzano. I numeri di Bankitalia non dicono solo che il cosiddetto “ascensore sociale” s’è fermato; rivelano pure che si sta divaricando la forbice tra classi. Siccome non siamo più nell’Ottocento del proletariato e del padronato contrapposto, ma in una società ad amplissima diffusione della cosiddetta “classe media”, il tutto sta a significare che questa classe media si sta lentamente squagliando come il gelato sul cono. C’è uno scivolamento di classe media in condizioni di disagio economica, di difficoltà: soprattutto laddove non ci sia un rassicurante patrimonio alle spalle a fare da materasso. In verità c’è chi sta accumulando notevoli ricchezze pure in questi anni di magra: manager superpagati; industriali dal fatturato “gustoso” e dalla dichiarazione dei redditi striminzita (in media denunciano meno dei loro dipendenti…); liberi professionisti affermati e ben pagati… È il lavoratore “normale” che non potrà mai diventare ricco: stipendi inchiodati, carriere congelate, flessibilità in aumento ma malpagata, continua erosione dei posti di lavoro, tassazione ormai asfissiante, carichi familiari poco o nulla supportati dall’aiuto dello Stato. Quindi chi è ricco, è ricco. Chi non lo è, difficilmente lo diventerà. Sembra un ritorno al Medioevo, periodo in cui sono ambientate quelle favole di principi e belle fanciulle con la scarpetta di cristallo presa in prestito dalla fata. Se l’ascensore sociale torna ad essere il matrimonio “giusto”, è tempo che ripensiamo dalle fondamenta le basi della nostra società. La volevamo più giusta ed equa, e Bankitalia ammette che i cittadini interpellati chiedono oggi una maggiore redistribuzione della ricchezza tra tutti: segnale che queste dinamiche economiche non sono né nascoste né ignote ai più. Sperare in una nuova crescita economica impetuosa e generalizzata che livelli (in alto) la situazione, rischia di essere pia illusione. Si permetta maggiormente ai giovani, alle donne, agli immigrati – a chi cioè è oggi in una condizione di handicap di partenza – di avere più chance di farcela. Ma la politica, quella con la P maiuscola, ha il dovere di ripensare una società in cui le forbici si richiudano e gli ascensori non si arrugginiscano. Altrimenti sarà solo declino, e la denatalità ne è il segnale più evidente e inquietante.
Nicola Salvagnin (fonte www.agensir.it)

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