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I pericoli della ricchezza? Sono sotto gli occhi di tutti… Commento al Vangelo di domenica 29 settembre

Commento al Vangelo delal XXVI Domenica del Tempo ordinario

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Di Padre Fabrizio Cristarella Orestano
Comunità Monastica di Ruviano
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XXVI Domenica del Tempo ordinario
Am 6, 1a.4-7; Sal 145; 1Tm 6,11-16; Lc 16, 19-31

Ancora sul denaro.
La scorsa settimana la riflessione ci portò a considerare l’uso retto delle ricchezze, oggi i gravi pericoli delle ricchezze.
Le parole di Amos, nella prima lettura, sono forti, dure, hanno il suono della profezia che grida parole scomode, parole che giudicano. Amos grida facendosi eco del dolore del Signore soprattutto per l’indifferenza dei ricchi, dei benestanti, in senso ampio e in senso letterale, cioè quelli che stanno bene, sicuri, riparati, certi del loro potere; questi sono tanto stolti da credere che la loro condizione sia definitiva ed inamovibile.

Non si illudano: il Signore depone i potenti dai troni (Lc 1,52) e cesserà l’orgia dei dissoluti! I sazi continuano ad ingannarsi, sono stolti e ciechi; stolti perché si sopravvalutano e ciechi perché incapaci di vedere altro che la loro condizione, incapaci di vedere la miseria degli altri.

La parabola del ricco e del povero Lazzaro è una straordinaria narrazione di questa situazione che ogni giorno appesta il mondo e ferisce l’umanità. Sì, ogni giorno l’indifferenza uccide, ogni giorno il potere del denaro è morte dolorosa del povero, è morte dannata per il ricco, è morte della fede in Dio per chi confida nel denaro, per chi dice il suo Amen al denaro (ricordiamo il senso terribile della parola Mammona!).

Questa è l’unica parabola in tutto l’Evangelo in cui uno dei protagonisti ha un nome: Eleàzar (Lazzaro) che significa Dio aiuta; ha un nome che rivela il suo cuore: si fida di Dio, del suo aiuto. E’ nelle mani di Dio. L’altro non ha nome, si fa definire dal suo oro: è un uomo ricco. Questi non compie azioni malvagie verso Lazzaro, è solo distante, indifferente, immerso nella sua orgia da dissoluto; veste come un re e non è un re: l’unico signore della sua esistenza è lui stesso. Lazzaro è lì e il ricco non se ne cura, lo ignora: il mondo è lui! La sua malvagità è più subdola di quella di un brigante che uccide, la sua malvagità produce ugualmente piaghe e dolore. Lazzaro soffre per le piaghe e per il desiderio sempre frustrato di sfamarsi; non pretende di sedersi a quella mensa, vorrebbe solo le molliche di pane che il ricco usa per pulirsi le mani dopo aver mangiato (le posate non esistevano!)…

Codex Aureus Epternacensis, Parabola del ricco e del povero Lazzaro, Folio 78 recto (1035-1040); Norimberga, Germanisches Nationalmuseum

Accade però che l’orgia del ricco finisce e finisce anche il dolore di Lazzaro. Viene la morte che però non livella; i due tornano in una situazione di disparità ma capovolta: Lazzaro è portato dagli angeli nel seno di Abramo, il ricco è sepolto e sta nell’inferno. La differenza dei due verbi è importante e già mostra, con il tocco sapiente e raffinato di Luca, il capovolgimento delle situazioni. Si badi che qui Gesù non vuole descrivere l’oltretomba, l’aldilà, vuole invece parlarci del giudizio di Dio su ciò che noi viviamo nell’aldiquà! Il ricco ora è in una nuova situazione, una situazione di desiderio, ha sete, e finalmente vede Lazzaro accanto ad Abramo. Non l’aveva mai visto, i suoi occhi non si erano fermati sulle sue piaghe e sul suo desiderio di sfamarsi … ora lo vede e subito ancora mette davanti i suoi desideri: Lazzaro dovrebbe andare da lui a spegnergli l’ardore della sete. Abramo, loro padre comune, che ora è il suo interlocutore nega questa possibilità. Si badi bene che il no di Abramo non è una vendetta, non è un occhio per occhio, dente per dente, non è la punizione perché non ha soccorso Lazzaro. No! Abramo spiega che ora si è stabilita un’impossibilità, c’è un abisso tra il ricco ed il seno di Abramo ove Lazzaro è consolato. L’abisso l’ha creato l’indifferenza, l’abisso l’ha creato quella ricchezza colpevole nella quale si è abbandonato e dalla quale si è lasciato stordire e rendere cieco ed insensibile. L’abisso non è più valicabile. E’ finita l’orgia del dissoluto, direbbe Amos, il “dissoluto” ora raccoglie l’orrore che ha seminato; questo strano dannato (si vede che è un parto della fantasia di Gesù e dell’evangelista e non è un vero dannato) si preoccupa della sorte dei suoi fratelli ricchi che ora sa che sono su una via mortifera. Per loro chiede un miracolo. Abramo chiarisce che non servono miracoli perché hanno già dove volgere lo sguardo: hanno la Scrittura, lì il popolo dei figli di Abramo ha la via, lì devono tendere l’ascolto, lì devono prestare obbedienza. Nessun risorto da morte converte il cuore se non si ascolta la Scrittura! Il monito è terribile per noi cristiani che cantiamo l’alleluia al Cristo Risorto e Luca certamente non è ingenuo nello scrivere queste parole e nel metterle sulla bocca di Abramo e quindi di Gesù che narra la parabola. L’ascolto della Scrittura rende possibile la fede nel Risorto e non il contrario. Nell’ultimo capitolo del suo Evangelo lo stesso Luca ci narra che i due discepoli di Emmaus riconoscono il Risorto solo dopo averlo ascoltato spiegare le Scritture. Senza l’ascolto vero quel viandante rimarrebbe solo un compagno di viaggio capace di molte chiacchiere. Ascoltare le Scritture ci dà la possibilità di sfuggire ai pericoli delle ricchezze che soffocano e seminano morte. Ascoltare le Scritture significa dare a Dio ed al suo parlare la signoria sulla nostra esistenza e se Lui è il Signore non ci saranno asservimenti alle orge, alle ricchezze, all’idolatria di sé e dei propri desideri che diventano legge a costo d’essere ciechi sulle piaghe, le attese ed i legittimi bisogni degli altri, dei poveri, dei dimenticati. Di questi Dio non si dimentica, è per loro aiuto (EleazarDio aiuta), è per loro consolazione e speranza.

Questa domenica ogni assemblea cristiana è chiamata a fuggire l’avidità che è rovina e perdizione. Spiace che la nuova versione della CEI non traduca con “fuggi” l’imperativo greco “feughe” ma attenui con un blando “evita”. E spiace anche che il testo della Prima lettera a Timoteo inizi solo al versetto 11 senza farci leggere il precedente in cui si specifica da cosa Timoteo deve fuggire. I versetti 7-10 parlano dell’inganno della ricchezza e dei molti desideri insensati ed inutili che aggrediscono il cuore del ricco. Paolo specifica che la ricchezza affoga e che l’avidità è radice di ogni male: Alcuni presi da questo desiderio (del denaro) hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti. Per questo Paolo dice con molto calore al discepolo Timoteo: Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose! e poi ancora parla di una realtà della vita cristiana su cui più volte abbiamo meditato: la lotta. Infatti Paolo scrive: Combatti la buona battaglia della fede!

La lotta è possibile solo in quella signoria di Cristo che va accettata senza riserve.
Il ricco della parabola, ma con lui tutti i ricchi che si fidano delle loro ricchezze e sono ciechi e lontani dagli altri, è precipitato nell’inferno abissale perché aveva un “signore” che gli ha messo catene pesanti, forse d’oro, ma catene che l’hanno tenuto ben ancorato alla terra che era stata, con le sue ricchezze, il suo solo orizzonte. E vi è rimasto prigioniero! Dinanzi a tutto questo risuoni forte l’imperativo di Paolo: Fuggi!

 

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