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Da “alunni a distanza” ad “alunni invisibili”. Luci e ombre sulla scuola al tempo del Covid19

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Ilaria Cervo è una mamma e una maestra… Entrambe le cose, senza distinzione.
È nata e vive a Caiazzo. 

Insegnante della Scuola primaria dell’Istituto comprensivo A. A. Caiatino, lavora nel plesso scolastico di Piana di Monte Verna (comune di 2.300 abitanti ca.) in una classe prima e in una quarta…
Dopo oltre un mese di didattica a distanza tira le somme superando la distanza di quel desktop ed entrando, a pieno diritto, nella vita, nelle preoccupazioni, nei pensieri dei “suoi” bambini e di tanti genitori…
Un’amara riflessione, seppur consapevole, sulla Scuola in questo momento fatta di tecniche, metodi, percorsi che vanno onorati con il massimo dell’impegno. Ma ugualmente va onorata la missione di “educatori” che a ciascun insegnante è affidata…
La sua lettera (perchè è teale un testo scritto con tanta passione e tanta premura) segue quella pubblicata alcuni giorni fa, a firma di Costantino Leuci, docente presso il Liceo Galilei di Piedimonte Matese: la nostra riflessione sul mondo della Scuola si apre a più fasce di età e a diversi percorsi formativi…
(Leggi  “I nostri alunni, donne e uomini che hanno affrontato un momento storico e ne sono venuti fuori” di Costantino Leuci)

Ilaria Cervo – Oramai è confermato: l’anno scolastico 2019/2020 si concluderà senza che potremo ritornare a sederci tra i banchi. Le aule, i corridoi, i saloni, le mense, si sono spenti una mattina di fine inverno e – forse – ritorneranno a risuonare di voci di bambini e di ragazzi soltanto a settembre.

Nel frattempo c’è la DaD, didattica a distanza, e a giugno la scuola terminerà con un click sul tasto “chiudi”. E con un pugno al cuore.

Didattica a Distanza... Non me ne vogliate, ma più ripeto queste tre paroline e più mi suonano soltanto come uno slogan; personalmente la ritengo solo un surrogato della didattica, come il caffè – quello fatto con la cicoria – che si preparava durante la guerra e del quale ci si accontentava.

Ecco: senza abusarne (perché c’è un serio rischio nella DaD, come ha detto una mia simpatica collega, ed è che si trasformi in un inutile quanto dannoso “accanimento didattico”) noi docenti, e con noi gli alunni e le loro famiglie, ci siamo dovuti necessariamente accontentare della DaD e stiamo facendo del nostro meglio per usarla nel modo migliore possibile.

Non è colpa di nessuno se fin dall’inizio, e ancora adesso, ogni giorno, si ha la sensazione di improvvisare, di andare per tentativi ed errori… È senz’altro un’occasione unica di “ricerca-azione” dalla quale, senza retorica, stiamo imparando tanto: quando ritorneremo a scuola, davvero non saremo più quelli che ne sono “usciti” qualche mese fa.

La DaD è senz’altro utile per affrontare questa emergenza per la quale nessuno era preparato. Aiuta a non vanificare del tutto il lavoro fatto in classe, ma non ha nulla a che fare con la didattica vera e propria. Forse, ma molto forse, può andar bene con i ragazzi delle Scuole Superiori, con gli studenti universitari sicuramente (e comunque non credo sia la soluzione migliore nemmeno per l’università).
Ma assolutamente ‘no’ nella scuola dell’obbligo, soprattutto nella Scuola Primaria e men che meno in quella dell’Infanzia. La scuola è vita, è stare insieme, è relazione continua, è fare da soli ma con la presenza dell’insegnante; la scuola è anche fare merenda insieme. La scuola è condivisione. La scuola è inclusione. E la DaD, purtroppo, non può garantire nessuna di queste peculiarità, anzi rischia di creare solchi molto profondi. Tuttavia è, al momento, l’unica strada possibile da seguire ed è giusto seguirla, conoscendone tutti i limiti.

Noi docenti ci siamo ritrovati a fare i conti con un’esperienza totalmente nuova, mai immaginata da nessuno, e, benché spaventati e in ansia per le notizie che arrivavano  dal mondo là fuori, ancor prima che ci venisse chiesto dall’alto, facendo di necessità virtù, ci siamo armati di energia, fantasia e sorrisi, con l’obiettivo di garantire ai nostri alunni il diritto allo studio, alla serenità e al gioco, cercando di in tal modo di evitare il verificarsi di un’emergenza che di solito riguarda solo determinate fasce di utenza scolastica ma che adesso poteva estendersi ad una larghissima maggioranza di alunni: una condizione inedita di “dispersione scolastica”.

Una cosa ci è stata chiara fin dalle prime ore: dovevamo tenerci stretti i nostri alunni, confinati ognuno nella propria casa, alcuni senza fratelli o sorelle con cui giocare (e anche litigare), travolti anch’essi da questo tzunami che li ha strappati, senza preavviso, dalla loro quotidianità trasformandoli in “alunni a distanza”, con il serio rischio che diventassero “alunni invisibili”.

Da due mesi mi sistemo nella mia postazione DaD  e, costringendomi a tirar fuori tutto l’entusiasmo indispensabile, registro e invio le mie videolezioncine con annesse foto e ulteriori spiegazioni. Compilo il RE, registro elettronico, allego il materiale alle piattaforme. Scrivo messaggi di avvisi alle colleghe, alle rappresentanti di classe e poi c’è il tam tam delle risposte di genitori e bambini.
“Buongiorno. Videolezione in arrivo. Compiti assegnati su tutte le piattaforme: scegliete pure quella che vi ritorna più comoda. Se avete bisogno di altre spiegazioni chiamate pure quando volete. Non vi preoccupate. Io sono qui”.
“Maestra oggi pomeriggio possiamo fare la videochiamata…? Maestra allora domani tutti connessi sulla piattaforma!”
“Certo, va benissimo, vi racconterò una storia; proveremo a fare una lezione come se fossimo a scuola!”
“Maestra ma quando torniamo a scuola?”.

Da due mesi, tranne qualche “videoconferenza” organizzata tenendo conto delle esigenze di orario dei genitori che necessariamente devono stare insieme ai figli, continuo a guardare “soltanto” lo schermo muto del PC.

Oltre il desktop un apparente nulla…e l’attesa di un segno: “Maestra ci sono! Maestra ci sei? Maestra posso chiamarti? Maestra mi manchi! Maestra ti voglio bene. Buonanotte maestra”.

Oltre quel desktop, il buio.
Un buio oltre il quale dobbiamo assolutamente guardare per afferrare, oggi più che mai, l’”essenziale invisibile agli occhi”: la didattica a distanza ci impone, questo sì, ce lo deve imporre, di essere empatici.

La “sfida” della DaD non è solo quella di riuscire ad insegnare a distanza contenuti e abilità! La vera sfida della DaD, la più complessa, che riguarda sicuramente gli studenti di ogni ordine di scuola, ma forse un po’ in più la Scuola Primaria e quella dell’Infanzia, sta nella capacità di noi insegnanti di intercettare ogni segno di disagio, di senso di inadeguatezza dei bambini; capire cosa accade nei “tempi vuoti della comunicazione” con loro; dobbiamo, noi insegnanti, vigilare e percepire ogni segnale di sofferenza.
È fondamentale in questo momento individuare le storie (da quelle “semplici” a quelle difficili) degli alunni che, loro malgrado, “si nascondono” dietro quello schermo; e, se necessario, intervenire senza indugio, facendo ricorso a tutti i mezzi di cui disponiamo.

Dietro quello schermo muto, ci sono le storie di tutti i bambini italiani, da oltre quaranta giorni chiusi in casa: piccoli silenziosi e pazienti eroi di questa condizione surreale. Eroi e vittime di un sistema che, ovvio, non poteva essere pronto ad affrontare una tale emergenza, ma che adesso non può, in nome di un eccesso di adempimenti formali, correre il rischio di smarrire l’essenziale e non ascoltare il rumore che si nasconde oltre il buio di un desktop, apparentemente vuoto e muto.

Oltre quello schermo, ci sono i bambini con le loro famiglie, anch’esse protagoniste in prima linea, e su più fronti, in questa battaglia; genitori spaventati, preoccupati, avviliti, impreparati (come tutti del resto), catapultati in una condizione di vita quasi ingovernabile. Madri e padri, impegnati a lavoro – chi in modalità “remoto”, chi fuori casa –  chiamati a fare anche da insegnanti ai loro bambini (spesso anche più di uno), e che, in taluni casi,  si vedono costretti a delegare per questo compito addirittura i figli più grandi a loro volta impegnati come studenti.

Oltre quel desktop un mondo parallelo, sconosciuto, anzi completamente nuovo: fino a due mesi fa tutto procedeva secondo ritmi organizzati (troppo veloci e frenetici, e questo bisognerà ricordarlo bene quando l’emergenza sarà passata) che davano ordine alla quotidianità di ciascuno.

Oggi, tutti chiusi in casa, siamo “sopraffatti” dal troppo tempo a disposizione e, soprattutto i più piccoli non sono in grado di gestirlo correttamente. Stare a casa non è stare a scuola e il genitore non è l’insegnante; a casa non suona la campanella. A casa ci si distrae, c’è il giochino e non c’è la maestra che dice che adesso non è il momento di giocare. E anche se ci si “connette in video conferenza” non è come stare a scuola, benché sia un ottimo strumento per consentire ai piccoli di colloquiare tra loro, vedersi, ascoltare qualche racconto o qualche breve spiegazione.

Ma oltre quel desktop c’è anche chi ancora un desktop non ce l’ha e bisogna raggiungerlo per altre strade per scongiurare il rischio che il cosiddetto “distanziamento sociale” non assuma ben altro significato. Cosa non facile, ma da risolvere prioritariamente, raggiungere i bambini di cui già si conosceva la condizione di disagio familiare che si riflette da sempre anche sul rendimento scolastico. Emerge, con la didattica a distanza, anche un nuovo disagio, quello dei bambini che a scuola erano sempre i primi, quelli ritenuti più bravi, maturi, responsabili e che, per ragioni ancora da capire, sembrano essersi eclissati, limitandosi loro ad un invio meramente formale dei “compiti”: improvvisamente non cercano più né gli insegnanti né i compagni di classe. E questo è un fatto che non può assolutamente passare in secondo piano.

Ancora di più queste “emergenze” sottolineano come la DaD sia da ritenersi soltanto una soluzione necessaria ma temporanea: non può passare l’idea che si tratti della strada del futuro della scuola. Può esserlo, ma per periodi brevissimi. In questa emergenza, può avere sicuramente il merito di restituire ai nostri bambini una parvenza di “normalità” ma guai a noi se dovessimo pensare che sia la strada da intraprendere anche per il futuro.

Non è colpa di nessuno se bisogna farvi ricorso, ma intanto che la usiamo, è bene ricordarci che oltre quel desktop ci sono bambini soli, disorientati, che da mesi non hanno più nessun tipo di contatto “reale” con i loro amici e con i loro insegnanti e anche con i loro parenti più stretti; nella stragrande maggioranza dei casi, questi bambini sono stati privati del contatto e del gioco con i nonni, figure fondamentali per la loro crescita: come non pensare a chi, in questa immane tragedia, i nonni li ha persi e non potrà più giocarci!
Quale didattica a distanza per questi bambini? Quale valutazione per un bimbo che piange?

La scuola è voci che parlano l’una sull’altra sulle quali a nostra volta noi dobbiamo imparare a parlare per ottenere ordine e attenzione. La scuola è il bambino che al mattino si aggrappa alla mamma perché non vuole lasciarla andare! La scuola è guardarsi negli occhi dal vivo, prendersi un rimprovero e un sorriso, nell’”intimità” di un’aula e non in una “simulazione” della casa del grande fratello.

La scuola è un’alunna incontrata per caso, che da lontano ti riconosce, nonostante la mascherina che indossi, e ti corre incontro per abbracciarti…e tu, proprio perché di quella bambina vuoi solo il suo bene, ne fermi la corsa ad un metro di distanza da te e le impedisci, per amore, di farsi del male.

 

 

 

1 COMMENTO

  1. L’apprendimento avviene nell’ambito di una relazione. La scuola è relazione. La didattica a distanza non potrà mai offrire la ricchezza e la profondità che la relazione vis a vis offre; non lo stesso essere-insieme, lo stesso sentire e sentirsi.

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