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Napoli campione d’Italia, il lampo che squarcia la notte partenopea

Una squadra dove non esistono prime donne, ma il sacrificio collettivo e il risultato che abbraccia tutti. Conte l'artefice del gran gioco

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Doriano Vincenzo De Luca – Sotto un cielo di fuochi d’artificio e bandiere sventolanti, Napoli ha abbracciato il suo quarto scudetto il 23 maggio 2025, un trionfo scolpito con 82 punti, 59 gol segnati e appena 27 subiti, suggellato da un 2-0 al Cagliari che ha fatto esplodere il Maradona in un’estasi collettiva. Questo non è solo un titolo calcistico, ma un prisma socio-antropologico che rifrange la disciplina ferrea di Antonio Conte, l’astuzia provocatoria di Aurelio De Laurentiis, l’epica della normalità di una squadra senza primedonne e il sogno di una città che si specchia nel calcio, oscillando tra riscatto e stereotipi folkloristici. È un racconto di resistenza, di narrazioni controcorrente e di una Napoli che, pur vibrante, fatica a scrollarsi di dosso l’etichetta di un eterno teatro pittoresco.

Antonio Conte, demiurgo di un calcio che rifiuta l’abbaglio dello spettacolo per inseguire la concretezza del risultato, ha tessuto un arazzo di rigore in un contesto che l’immaginario collettivo dipinge come caotico e passionale. Dopo il naufragio del decimo posto nella stagione precedente, orfano di talenti come Osimhen e Kvaratskhelia, il tecnico leccese ha plasmato un Napoli che ha vissuto di solidità e sacrificio, un collettivo che ha trovato nella compattezza difensiva – 27 gol subiti, il miglior dato in Serie A – e in figure come Scott McTominay, autore di 12 reti, un’ancora di salvezza. Questo scudetto non è un’ode al virtuosismo individuale, ma un inno alla disciplina come forma di agency culturale, capace di trasformare una squadra ordinaria in un simbolo di resilienza che sfida le gerarchie del calcio italiano.

Aurelio De Laurentiis, trickster imprenditoriale che danza tra genialità e provocazione, ha orchestrato questa rinascita con una visione che coniuga oculatezza e audacia. La sua capacità di ricostruire un progetto vincente dopo il disastro del 2023-2024, con acquisti mirati come Lukaku, Spinazzola e Buongiorno, rivela un’intelligenza strategica che trascende le sue intemperanze comunicative. Queste ultime, lungi dall’essere mere gaffe, si configurano come una performance deliberata, un gioco di specchi che amplifica l’aura del Napoli in un’arena mediatica globale (Baudrillard, 1981). De Laurentiis non è solo un presidente, ma un narratore che trasforma il caos in capitale simbolico, rendendo il club un faro di riscatto in un panorama calcistico dominato da colossi economici.

La normalità di questo Napoli – 82 punti, 59 gol segnati, un bottino modesto rispetto alle cavalcate trionfali di altre epoche – si erge come un atto di sovversione contro la spettacolarizzazione del calcio contemporaneo. In un’epoca di ipertrofia economica e individualismo esasperato, la squadra partenopea incarna una forma di capitale sociale (Putnam, 1993), dove la forza risiede nella coesione di un collettivo privo di superstar. Giocatori come Politano, Anguissa e Rrahmani, insieme alla rivelazione McTominay, non brillano per carisma mediatico, ma per un’etica del lavoro che rende il gruppo più grande della somma delle sue parti. Questo scudetto celebra l’ordinario come virtù, un orgoglio che sfida le logiche di un calcio sempre più votato all’eccesso.

Napoli, crocevia di passioni e paradossi, si specchia in questo trionfo come in un sogno che intreccia riscatto e illusione. Le strade invase da canti e colori, i maxischermi che illuminano Piazza Plebiscito, sono frammenti di un rituale antropologico che sublima un’identità ferita ma indomita. Eppure, la città rimane avviluppata in una narrazione che la vuole eterna scenografia folkloristica – pizza, mandolini, caos – alimentata da flussi turistici che consumano un’immagine stereotipata, soffocando le sue ambizioni di modernità. Il tifo partenopeo è un atto di resistenza culturale, un grido che sfida le gerarchie nazionali, ma anche un’illusione che rischia di rimanere confinata a un’effimera catarsi, incapace di tradursi in un progetto di trasformazione strutturale. Napoli sogna, ma il sogno si scontra con le sue contraddizioni: una città che potrebbe essere un faro del Mediterraneo, ma che troppo spesso si accontenta di brillare solo sotto i riflettori del calcio.

Questo scudetto è un lampo che squarcia il velo della notte partenopea, un intreccio di discipline contiane, astuzie laurentiisiane e virtù ordinarie che sfidano il culto dell’eccesso. Ma Napoli, in questo trionfo, non trova solo un trofeo: trova un riflesso cangiante, un sogno che si fa carne nelle urla di Piazza Plebiscito, ma che svanisce come un’eco tra i vicoli. È una città che danza sul confine tra il mito che la imprigiona e l’orizzonte che potrebbe liberarla, sospesa tra il canto di una vittoria e il silenzio di ciò che ancora non è. La sfida è trasformare questa vittoria in un volano per una Napoli che smetta di essere solo una cartolina e diventi protagonista di una modernità che le spetta.

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