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Venezia 71. “Anime nere” primo italiano in concorso, il cuore oscuro della Calabria

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Lido di Venezia – Mentre si fanno i conti con i temi forti e attuali delle pellicole proiettate nei primi giorni, alla Mostra del Cinema di Venezia fa il suo esordio in concorso il cinema italiano (sono tre film in tutto), che porta sullo schermo una storia di malavita in equilibrio tra modernità e tradizione. Anime nere, di Francesco Munzi, è la libera trasposizione dell’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco, una vicenda che ci trasporta nel cuore nero della Calabria dove è protagonista una famiglia affiliata alla ‘ndrangheta, estesa con il suo potere in tutta Europa. Girato in piccoli centri rurali dell’Aspromonte, il film indaga i rapporti generazionali e le violente dinamiche di potere all’ombra densa della malavita, tanto ancorata alla tradizione quanto evolutasi in personaggi in giacca e cravatta, raffinati e colti, ma tuttavia vincolati da un legame indissolubile come può essere solo quello mafioso.
Munzi pare essere interessato più a descrivere, con tocco documentarista, un microcosmo antropologico e umano piuttosto che le vicende di sangue e potere che vibrano nella quotidianità dei tre fratelli protagonisti, indugiando, anche un po’ troppo, su alcuni eventi o tratti folkloristici, con un certo gusto realista, senza mai accelerare o inquadrare la narrazione negli schemi cari al genere, e con un ritmo che però stenta sempre a decollare probabilmente per scelta dello stesso regista. Il che fa di Anime nere un film avulso dalla comune messa in scena di storie criminali.
E la violenza, declinata in varie forme e rappresentazioni, è ancora quest’anno tra i temi più approfonditi dalle pellicole della Mostra, dal concorso principale sino alle sezioni collaterali. A cominciare ci ha pensato Kim Ki-duk, che con il suo One on one torna al Lido di Venezia dopo il Leone d’oro conquistato nel 2012 con Pietà.  Il suo film è intriso di vendetta e torture, ripetute meccanicamente in una strategia dell’orrore, senza toccare le punte grottesche e poetiche dei suoi lavori precedenti. Sul tema della violenza e della ritorsione si concentra anche il ritorno del regista iraniano Moshen Makhmalbaf, che con The president narra la caduta di un ipotetico dittatore mediorientale, in cui la mancanza di perdono si manifesta come spinoso dilemma morale. Ma sicuramente il film più potente sotto questa luce è il documentario agghiacciante The look of silence del texano Joshua Oppenheimer, che dopo Act of killing (2013) torna sul genocidio dei comunisti indonesiani di mezzo secolo fa, dove il confronto tra sopravvissuti e carnefici diventa terreno di doloroso confronto e angoscioso ricordo, attraverso una “rappresentazione scenica” delle violenze perpetuate allora, con una forza visiva perfino più forte di qualsiasi altra immagine cruenta.

Michele Menditto

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