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Commento al Vangelo domenica 8 ottobre. L’ingratitudine e il fallimento dell’umano nella parabola dei contadini omicidi

Commento al Vangelo della XXVII domenica del Tempo ordinario - Anno A

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di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)

XXVII domenica del Tempo ordinario – Anno A
Is 5,1-7; Sal 79; Fil 4,6-9; Mt 21,33-43

Scuola fiamminga secolo XVII: “I vignaioli omicidi”

 La parabola dei contadini omicidi si presenta come una amara, ma realistica riflessione sui “fallimenti” che segnano la storia della salvezza e che vengono riletti alla luce dell’immagine della vigna, ricorrente altrove nella Scrittura per indicare Israele (cf. Is 5,1-7; Ger 2,20-22; Os 10,1; Sal 79). La peculiarità del racconto evangelico sta nel fatto che il problema sul quale esso invita a fermare l’attenzione non è quello relativo alla qualità della vigna (che, difatti, porta frutto), ma quello del rapporto tra il padrone della vigna e coloro cui essa è affidata: è dentro questa relazione, infatti, che si gioca per ogni credente la possibilità di una vita che non sia più “per sé”, ma “per Lui, con Lui e in Lui”.

Cos’è, infatti, la comunità credente (tanto Israele quanto la Chiesa) se non quello “spazio” pensato e voluto da Dio perché l’uomo, nell’esercizio della propria libertà responsabile, possa raccogliere i frutti da Lui ricevuti («i suoi frutti») senza avanzare su di essi alcuna pretesa? Eppure, l’atteggiamento dei contadini ai quali è affidata la vigna è paradigmatico di un modo di gestire la vigna che invade lo spazio di Dio con la pretesa di estrometterlo. L’indubbio contributo dei contadini alla produttività della terra, infatti, non toglie al padrone il diritto di essere proprietario di quei frutti, non solo in quanto ne è il primo destinatario, ma anche in quanto egli stesso ne è, in qualche modo, all’origine («c’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna»).

D’altra parte, è lo stesso testo evangelico a mettere in secondo piano il lavoro dei contadini, limitandosi a registrare che «il tempo dei frutti arrivò»: se questa notazione non significa disinteresse o disprezzo per la legittima fatica dei vignaioli, essa suggerisce che il portare frutto non è riducibile esclusivamente a quella fatica e che neppure dipende dalla bontà dei contadini. E così, mentre afferma l’“inarrestabile” fecondità della vigna, la parabola mette a fuoco il contrasto tra l’atto di fiducia in forza del quale il padrone, dopo aver affidato la sua vigna ad alcuni contadini, «se ne andò lontano» e il mancato riconoscimento del padrone da parte dei contadini: di ciò è manifestazione il rifiuto dei suoi inviati, che altri non sono che i profeti e Gesù («mandò i suoi servi…di nuovo mandò altri servi…ma da ultimo mandò loro suo figlio»).

Il rifiuto del padrone – che si manifesta nell’ostilità riservata ai suoi inviati – esprime così ingratitudine e, dunque, pretesa di ritenere proprio ciò che in realtà è di altri ed è per altri: in tal senso, la parabola denuncia il rischio, sempre attuale per l’uomo “religioso”, di uscire dalla logica del dono e della grazia per entrare nella logica della pretesa e del possesso – la raccolta dei frutti, infatti, non dovrebbe essere finalizzata all’accumulo, ma alla restituzione grata al legittimo proprietario. La gravità del rifiuto dei contadini sta, allora, in ciò che esso significa in profondità, vale a dire la volontà “irresponsabile” dei contadini di ergersi a padroni della vigna: prendere il posto del padrone è non volersi riconoscere in qualche modo “debitori” verso di lui, sottraendosi all’umiltà della gratitudine.

In fin dei conti, il padrone chiede solo di essere riconosciuto e accolto per quello che egli è realmente, ossia il proprietario di ogni frutto della sua vigna: ma proprio questa è la realtà cui i contadini si ribellano e questo atto di disobbedienza si traduce immediatamente in un esercizio di “violenza”. I contadini diventano così icona di chi, avendo smarrito la memoria della fiducia accordatagli da Dio, non ha appreso da Lui neppure la pazienza dell’attesa e dello scacco. In definitiva, se la storia della salvezza sembra tante volte fallire, ciò è dovuto ai suoi destinatari e al loro agire “irresponsabile”, incapace, cioè, di essere autentica risposta a ciò che Dio fiduciosamente chiede. Di fronte a tali fallimenti, il drammatico finale della parabola non intende mostrare la vendetta di cui è capace un Dio senza compassione, ma la tenacia di un Dio che neppure l’umano fallire può fermare.

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