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Giustino Fortunato in una gita sul Matese nel luglio 1873. L’inedito racconto dalla Biblioteca della Società Geografica Italiana

Da Napoli a Telese e poi a Piedimonte, ospite di Palazzo Ducale: l'autore di questa memoria ci conduce lungo le pareti del Matese fino al "Mons Militum, che fu l’ultimo baluardo dell’indipendenza dei Sanniti"

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Racconto inedito sul Matese, dalla penna di Giustino Fortunato, socio del CAI, sezione di Napoli. 8 luglio 1873, un gruppo di amici escursionisti abbandona ben volentieri la calura della città per raggiungere Piedimonte e da qui risalire il Miletto, consapevoli che la Campania poco conosce il suggestivo paesaggio matesino.
Riflessione ancora attuale? Sicuramente, se si considera la scelta del turismo mordi e fuggi delle domeniche in cui centinaia di automobili si inerpicano e scelgono Lago Matese ed altipiani per le tradizionali scampagnate. Diversa la proposta dell’Associazionismo divenuto occasione per esplorazioni organizzate con l’obiettivo di far conoscere il Matese e la sua biodiversità. 
Il testo, a firma del prof. Armando Pepe è un inedito per la rubrica di Clarus, “Matese tra moderno e contemporaneo”, a cui ha dato un contributo sostanziale la Biblioteca della Società Geografica Italiana.

di Armando Pepe

Il CAI di Napoli
Il Club Alpino Italiano, universalmente conosciuto sotto l’acronimo CAI, fu costituito a Torino il 23 ottobre 1863 e conobbe una rapida espansione su tutto il territorio nazionale. La sezione napoletana fu particolarmente attiva da un duplice punto di vista, escursionistico e scientifico. Una sezione animata da grandi intellettuali, da mecenati della cultura, da indomiti appassionati di alpinismo. Possiamo ricordarne i nomi, di alcuni di loro, che tanto fecero per la conoscenza, non solo della montagna ma anche della botanica, della geologia, della zoologia. Ce ne parla esplicitamente la pagina del CAI partenopeo, dove con enfasi è riportato che «La Sezione di Napoli fu una delle prime del Club Alpino. Appena 8 anni dopo la fondazione del Club Alpino Italiano (23 ottobre 1863), veniva costituita la “Succursale” (come si definivano allora) del Club a Napoli. Era il 22 gennaio 1871, e quella di Napoli era in assoluto la settima sezione del CAI (dopo la costituzione di Torino, erano già state aperte le sezioni di Aosta, Varallo Sesia, Agordo, Firenze e Domodossola). Fondatori della Sezione di Napoli furono il conte Girolamo Giusso, Vincenzo Volpicelli, il cav. Luigi Riccio e il barone prof. Vincenzo Cesati, milanese ma residente a Napoli in quanto direttore dell’Orto Botanico. Toccò proprio a quest’ultimo divenire il primo presidente della Sezione di Napoli del CAI, sezione che contò subito un discreto numero di soci: 55 nel 1872, 102 nel 1872, 141 nel 1874, 173 nel 1879, 166 nel 1881. La prima sede fu in largo Monte Oliveto 86, al terzo piano, ove i soci si riunivano ogni venerdì dalle 19 alle 23. E nel 1872 alla Sezione toccò di organizzare il V Congresso Nazionale del Club Alpino Italiano, che si svolse non a Napoli ma a Chieti, all’ombra della Maiella (con escursione sul Monte Amaro). Il Congresso costituì il primo ritrovo alpinistico dell’Italia meridionale».

Cartolina Storica di Piedimonte d’Alife

Giovani che sorridevano al futuro
Appartennero al consesso anche l’agronomo e politico italiano Antonio Jatta e lo studioso, di prim’ordine nel panorama italiano postrisorgimentale, Giustino Fortunato, che secondo la voce prosopografica che lo riguarda nel Dizionario Biografico Italiano, nel 1872, a Napoli, «sotto la guida del professor N.A. Pedicino, botanico, e ancor più del suo assistente A. Jatta, il F. cominciò ad acquisire cognizioni precise sulle terre meridionali. Dal raffronto e dal contrasto tra la rude e povera natura dell’Appennino meridionale con “la grande distesa d’acque e di verde che… copre il resto della penisola” gli venne una prima risposta al suo interrogativo».

L’entusiasmo di Giustino Fortunato
Giustino Fortunato fu l’autore di una memoria legata ad una gita sul Matese, avvenuta nel mese di luglio 1873. Merita di essere ripercorsa per la vividezza e la freschezza del ricordo, che palpita nelle parole. Scrive Fortunato che «l’Appennino napoletano è ignoto ai suoi medesimi abitanti e torna impossibile al forestiero il visitarlo con la sicurezza di quelle precise indicazioni, alle quali egli è da per ogni dove abituato. E lo scopo della sezione napoletana del Club Alpino sarà appunto quello di studiare i nostri monti e di scuotere la inerzia dei paesi meridionali col dar loro a comprendere, di quanta ricchezza potrebbero essere fonte le nostre bellissime contrade, allor che i viaggiatori saranno confortati a percorrerle, e verrà data occasione alla gioventù di ritemprare nelle gite alpine la salute del corpo e la vigoria dello spirito» (pp. 17-18). Un turismo consapevole che è ancora di là da venire.

Ricordava Fortunato che «Alle 4 del pomeriggio del giorno 8 del corrente mese [luglio 1873] partimmo dunque in ferrovia- contenti di lasciare, quand’anche per due giorni, il caldo insoffribile della città [di Napoli]; ché il termometro segnava appunto la bagattella di 30 gradi!» (p. 18). Dopo due ore di treno la comitiva arrivò a Telese e da lì proseguì in carrozza per Piedimonte, attraversando Faicchio, Gioia e San Potito.

Le immagini racchiuse nei ricordi di Fortunato diventano più nitide, quando scrive: «Il palazzo dei Gaetani è fabbricato al sommo del paese: rifatto nel secolo scorso, conserva però alcune tracce di epoche anteriori, ed il gran salone di aspetto è tappezzato all’intorno da più che cinquanta ritratti gentilizi- tra i quali ebbi a notare quelli di due papi, di Gelasio II e di Bonifazio VIII. Assisi ad una lieta cena, rallegrata inoltre da’ concerti della banda municipale, e dolenti soltanto di non aver fra noi il presidente barone Cesati, – si portò in ultimo un brindisi alla splendida ospitalità de’ signori Laurenzana; ed in punto alla mezzanotte, con un bel chiaro di luna, salivamo su’ muli l’erta viottola della collina, che va su a giravolte nel diruto castello di Piedimonte, il quale, tra le sue mura, racchiude oggidì un povero casale di contadini. L’occhio spaziava ormai in un seno vastissimo di coni bizzarri, e bella davvero era la vista delle numerose cavalcature, che ascendevano, serpeggiando, col rumorio continuo e cadenzato dei loro passi ferrati. Il panorama mutava di aspetto ad ogni mezz’ora, – poiché la via s’inerpica a scaloni pe’ fianchi di quei poggi fino al villaggio di San Gregorio, fabbricato ad un’altezza considerevole. L’alba incominciò poco dopo a diradare le ombre misteriose di quella vasta catena di monti, e la strada, nell’immettersi sul piano di S. Croce, corre in seguito a seconda delle sinuosità dei valloni sottoposti, che si aprono giù quasi a picco, profondi e coperti di cespugli. Alle ore 4 [del mattino], ecco finalmente la gola boscosa di Prete Morto, che dà fuori sul bacino del Matese. Rimanemmo estatici veramente a quello spettacolo così imponente, così grandioso, così inaspettato; ché il bacino suddetto, lungo una decina di chilometri e largo poco più di due, è chiuso d’ognintorno da alte montagne di forme diverse, ed è in parte coperto da un verde tappeto e nel rimanente da un lago che nell’està si restringe e si appantana» (pp. 19-20).

Al cospetto dell’infinito, Fortunato s’intenerisce e cerca di darsi una risposta sull’etimologia dei nomi dei monti attorno. «Il Monte Mutria, dalla forma arcigna come l’indica il nome, s’innalza alla destra con la sua base solida e piramidale; dinnanzi, nello azzurro del cielo, si disegnano le creste della gran parete del Matese, orlata in giù da un bosco di faggi e terminata in alto dalla volta del Monte Gallinola. A mano manca, infine, in mezzo a due contrafforti, si slancia l’ardita e nuda massa del Monte Miletto, che domina con la sua tinta grigiastra tutt’i monti circostanti, elevandosi a 2055 [rectius 2050] metri sul livello del mare. Non v’ha parola che possa descrivere appieno questo panorama bello a un tempo e maestoso. È d’uopo trovarsi lì, in quell’ora placida e serena, e vedere l’alta cima del Miletto rivestirsi della prima luce del sole, e questa scendere giù pe’ seni sottoposti, e coronare le altre montagne; e poi inondare tutto il bacino, senza che i più leggieri vapori si elevassero dalle acque stagnanti. Mentre però buon numero di soci si dava già ad ascendere il vicino Caprarello, il giovane botanico signor Jatta, col quale fui davvero fortunato di unirmi, si divise dal resto della brigata, dando loro appuntamento a’ piedi del cono di Monte Miletto» (pp. 20-21).

Continua Fortunato: «Alle ore 6 [del mattino], ci immettevamo su pel bosco de’ faggi e procedendo sempre verso la diritta, fummo così alla parete rocciosa che bisognò scalare per guadagnare la vetta sul pendio del Cianellone, il quale, a mano manca, raggiunge con faticosa erta il delizioso prato di Campo della Corte. Fermatici ad una mandria, ci contentammo di bere dell’acqua di neve, che del resto ci ristorò bravamente; e sotto la sferza cocentissima del sole, raggiungemmo alle ore 9 il più alto fra i poggi del Monte Gallinola» (p. 21).

L’ascensione del Monte Miletto
Il piacere più grande consisteva nell’ascesa del Monte Miletto, la cui cima era agognata da giovane Fortunato: «Eravamo così alle spalle di quell’antico Mons Militum, che fu l’ultimo baluardo dell’indipendenza dei Sanniti. […] Alle ore 3 e mezzo del mattino [del 10 luglio 1873] raggiungevamo tutti assieme la vetta desiderata, e sedevamo presso un gran mucchio di pietre innalzato l’anno scorso pe’ lavori geodetici dello Stato Maggiore. Spirava fortissima la tramontana, sì che appena i nostri plaids ci difendevano da un’atmosfera che da 22 gradi fè [fece] discendere in un’ora il termometro a soli 9 sopra lo zero. La luna splendeva immota e piena nella cupa volta del cielo, riflettendo malinconicamente i suoi raggi sul Mar Tirreno e sul lago di Patria. Niente può offrire l’idea della maestà di quella notte e di quel panorama» (pp. 23-24). Poi, contenti, soddisfatti e fortunati, si ritornò tutti a Napoli.

La passione per il Matese
La passione per la montagna, per le camminate in solitaria, per la meditazione camminando su sentieri poco battuti del Matese, cementò l’amicizia tra i presidi Dante Bruno Marrocco e Sebastiano Cunti, ed è a loro che, epigoni di Giustino Fortunato, dedico questo articolo.

Ringraziamenti, Fonti e Bibliografia
Ringrazio la dottoressa Patrizia Pampana della Biblioteca della Società Geografica Italiana.

Fonti
https://lnx.cainapoli.it/wordpress/la-storia/
https://www.treccani.it/enciclopedia/giustino-fortunato_%28Dizionario-Biografico%29/
https://www.storiadellacampania.it/biblioteca

Bibliografia
Pierroberto Scaramella, Solvitur ambulando: la ventennale attività pedestre di Giustino Fortunato – in “Sentiero degli Dei. L’Appennino Meridionale. Periodico di cultura e informazione della Sezione di Napoli del Club Alpino Italiano”, anno IV, fascicolo II, pp. 123-132, Napoli 2007.

Cartolina storica di Castello del Matese

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